Gigi la legge è l’ultimo film di Alessandro Comodin, presentato nel Concorso internazionale della 75esima edizione del Locarno Film Festival. Il film racconta le avventure di Gigi, un esuberante agente della polizia locale di San Michele al Tagliamento, che si ritrova ad indagare sui misteriosi suicidi che si susseguono in un paesino in cui tutto sembra immobile e fermo nel tempo. Mentre porta avanti le sue ricerche però, deve fare i conti con chi vuole contenere il suo entusiasmo e con ciò che cerca di invadere il suo territorio emotivo. Intervistiamo Alessandro Comodin proprio nei giorni del Festival, poche ore prima del Premio speciale della giuria vinto dal film.

Y.C.C.: Mi ha incuriosito molto una tua biografia che ho letto sul sito di un festival di cinema. Si concludeva dicendo “Alessandro Comodin non ha mai saputo se i suoi film rientrano nella fiction o nel documentario.”

A.C.: Sì mi ricordo, l’ho scritta io. Proprio perché così non me lo chiedono. Vuoi chiedermelo?

Y.C.C.: Sì. Con l’uscita di Gigi la legge senti che è ancora così?

A.C.: Sembra una banalità ma un film è un film, è tutto falso. Però è tutto vero allo stesso tempo. Non tende da nessuna parte, è lì, come un oggetto e tu lo guardi. L’altro giorno sono andato a vedere C’era una volta il West di Sergio Leone, che non è tra i miei registi preferiti, anzi un po’ mi annoia. Ma nonostante tutto all’interno di quelle famose inquadrature lunghissime, studiate nei minimi dettagli, ecco anche lì il reale entra. Puoi vedere tutto di quelle persone, vedi il reale in Henry Fonda e Charles Bronson, lo vedi nel sudore di Claudia Cardinale. E che cos’è quello? Certo è una finzione ma è reale. Il reale entra sempre in qualche modo. Nel mio film c’è una persona vera che vive la sua vita vera ma quando punti una camera lo sappiamo tutti cosa succede, tutto si modifica, sta a te riorganizzare quel tutto. Quindi le categorie, fiction o documentario, sono puramente televisive ma al cinema puoi vedere qualsiasi cosa senza sapere che cos’è, è il suo bello. Forse è più un problema di finanziamenti, perché devi decidere da che parte andare per trovare i fondi e per me è sempre un dilemma, non è mai abbastanza fiction e non è mai abbastanza documentario, non sai mai da che parte prenderla. Il punto è che ognuno deve trovare il suo modo di fare film e produrli e con Gigi ci sono voluti anni perché in qualche modo abbiamo preparato la realtà per poterla filmare per il cinema. Quindi che cos’è questo? Non lo so, non so rispondere.

Y.C.C.: È arrivato prima Gigi o la storia nel quale lo immergi?

A.C.: Sono arrivati insieme in realtà. Perché mi sono dato dei vincoli. Ad un certo punto mi sono detto: Gigi ci deve essere, dobbiamo lavorare con le persone del luogo, che non sono attori, ma così sarà. Ci siamo proposti tante sfide ma sempre all’interno di questi vincoli che erano imprescindibili, non si poteva fare altrimenti, erano le regole del gioco. Anche le inquadrature sono frutto di queste regole, per motivi produttivi a volte passavano tre ore tra un campo e il suo controcampo e non potevo chiedere agli attori di rimettersi a parlare di ciò di cui avevano parlato ore prima, anche se un paio di volte è successo. Ho girato dicendomi che ogni inquadratura sarebbe stata un’inquadratura a sé stante e se avesse funzionato era perché l’avevo pensata in questo modo; dovevano essere scene indipendenti le une dalle altre. Questo uso di lunghi piani sequenza crea un fuori campo enorme, presente e anche frustrante a volte, ma dà modo allo spettatore di immaginare. Il film vive di questi vincoli in tutti i suoi aspetti perché credo che bisogna fare con quel che si ha: poi in fase di montaggio il film si mostra e ti mostra come fare. Però c’è nel film qualcosa che non funziona, anche se la grammatica cinematografica è corretta, si sente che tra un campo e il suo controcampo ci sono delle differenze di luce, di suono e tempo. Lì entra il reale. È stato un costante gioco con il pericolo di non poter usare alcune immagini e a me piace questo gioco, mi piace scombinare le carte e magari decidere all’ultimo di fare soltanto uno o due ciak per la scena più importante e passare ad altro. Questo però lo puoi fare se hai dietro una squadra disponibile e pronta a filmare la finzione come se fosse un documentario. Altrimenti fai un casino.

Y.C.C.: Come hai lavorato con questi non attori? Come hai capito quando era il momento di dare loro delle indicazioni precise e quando invece era meglio lasciarli andare?

A.C.: Io non credo che loro sapessero veramente quello che stavano facendo, abbiamo letto la sceneggiatura insieme e lo stesso Gigi mi ha chiesto cento volte durante le riprese di cosa parlasse il film. In questo caso non si può parlare di direzione degli attori senza parlare del dispositivo cinematografico e dei suoi vincoli. Per esempio le scene in cui Gigi è di pattuglia: lì Gigi deve pensare a guidare mentre una cinepresa costosissima montata in macchina lo sta guardando e in tutto ciò deve fondamentalmente essere se stesso. È un casino, non è facile. Quindi alle volte la cosa migliore era semplicemente lasciare andare, in modo che lui se ne dimenticasse, complice il fatto che abbiamo girato in digitale e potevamo permettercelo.

Y.C.C.: È stato un vantaggio passare al formato digitale?

A.C.: No, non credo sia stato un vantaggio. Non ne sono sicuro. In ogni caso è troppo facile parlare a posteriori, il digitale ha una buona resa plastica e ti da il vantaggio di lasciare andare un take per 25 minuti. Le mie indicazioni per gli attori comunque rimanevano molto semplici, come delle sensazioni fisiche ad esempio. O che avrebbero potuto iniziare parlando del tempo, cose davvero molto semplici. A volte invece dovevo contenerli e chiamare un po’ di silenzio, è una cosa che succede quando lavori in questo modo, chi è davanti alla camera tende a riempire i vuoti. Io penso che sia molto meglio un buon silenzio che mille parole. Poi Gigi nonostante la sua personalità spiritosa è molto timido e tendeva a scappare dall’inquadratura, dovevamo contenerlo e a volte abbiamo montato delle focali lunghissime così anche quando si allontanava eravamo sicuri di averlo presente nel campo. Ci siamo dovuti sempre adattare di scena in scena, mi sono detto che per questo film non volevo avere dogmi, volevo giocare con gli strumenti del cinema che sento ancora rudimentali nel mio approccio. L’idea era di divertirsi e di fare qualcosa che facesse piacere a tutti.

Y.C.C.: Il territorio nei tuoi film non è mai mero fondale ma protagonista quanto i personaggi che lo abitano. In questo caso abbiamo un passaggio a livello e il giardino di Gigi. Da dove arrivano le suggestioni per il racconto di questi luoghi?

A.C.: Per me il cinema è filmare delle persone in dei luoghi, raccontare il legame che loro hanno con essi e viceversa. Ogni posto ha la sua anima. Vedi, anche qui sono procedimenti molto semplici: c’è il posto “buono” che è il giardino di Gigi, il suo nascondiglio che viene minacciato da quello che succede nel posto “cattivo”. Il giardino di Gigi è stato anche il mio nascondiglio, ci sono cresciuto dentro quel piccolo boschetto che adesso è diventato una giungla, anche questo mi piaceva raccontare: un uomo a cui piacciono così tanto le sue piante che le lascia crescere fino a quando non debordano nelle abitazioni vicine. Trovo che sia una cosa umana questa, qual è il limite tra te e gli altri? Il tuo corpo in qualche modo. Qui però è rappresentato da questo giardino. Poi c’è quel passaggio a livello maledetto dove continuano a susseguirsi questi suicidi, è un posto che io conosco a memoria, non ha un’anima bella, è dura. Abbiamo passato giornate intere in quel posto in fase di preparazione, ci siamo messi lì seduti con le sedie da campeggio con la scusa di cronometrare i treni, ma in realtà volevamo vedere chi passava, giornate intere così. È un lavoro al microscopio su un piccolo luogo ma quando punti la lente ti accorgi di tutto un mondo che gli orbita attorno, per quanto piccolo sia. Questa cosa mi entusiasma perché mi fa capire che puoi filmare qualsiasi cosa e renderla interessante, partendo da cosa senti tu in quel posto. E così ogni posto ed ogni persona può diventare un eroe. Gigi è un eroe. Leggendario.

Y.C.C.: Nel film si fa largo uso della lingua friulana. Com’è stato lavorare nella tua lingua madre?

A.C.: All’inizio il film lo avevo scritto in italiano, poi mi sono ricordato che Gigi parlava friulano, me lo ero dimenticato. Anche durante le scene ho sempre spinto perché parlassero un friulano che sentivano proprio, un suono che li facesse sentire a loro agio perché è così parlano nella vita di tutti giorni. Non sopporto quello che succede nel cinema italiano con la lingua e il suono, credo sia un genocidio questa standardizzazione dei suoni, questa dizione che nella vita non esiste, là fuori la gente non parla così, e allora com’è possibile che il cinema non li rappresenti questi suoni? Nel nostro caso il friulano, oltre a dare autenticità agli attori, crea anche delle sfumature interessanti perché cambia a seconda delle scene e con chi si parla, entra un po’ di italiano quando Gigi e la sua collega parlano del loro comandante, come se lo stessero imitando e queste piccole cose, questa spontaneità della lingua ti racconta delle relazioni e le loro sfaccettature. Girare nella mia lingua madre è stata una cosa che mi ha fatto estremamente piacere perché ho sempre sentito di non poterla parlare. I miei genitori parlavano due friulani diversi e c’era sicuramente un senso di vergogna nell’usarlo perché era lingua di contadini e a me da piccolo hanno sempre detto che sarei dovuto andare a scuola ed educarmi per bene. Tutto questo mi ha allontanato dal friulano, lo sto recuperando a poco a poco adesso. Quindi ecco, è stato emozionante.

gigi-la-legge-2022-alessandro-comodin-03

Y.C.C.: Qual è il tempo giusto per fare un film secondo te?

A.C.: Penso sia quello che la tua storia ti chiede. Purtroppo però molto spesso dipende dai soldi e meno da questioni creative. L’altro giorno ci stavo pensando, immaginiamo che ad un certo punto vinco alla lotteria un sacco di soldi, cosa faccio? Parliamo della possibilità di dimenticarsi di tutto e dire: me lo pago io il film…

Y.C.C.: Lo faresti?

A.C.: No, in realtà no. Perché credo che questo sia veramente un lavoro e in quanto tale vada retribuito. Usi il tuo tempo per fare un film, il tempo che serve per maturare e soprattutto per capire cosa ne vuoi fare di questo film. Ci vogliono anni per capire cosa vuoi dire, è un modo per entrare dentro di te e io ho il privilegio di poterlo condividere, è raro. Non avere soldi è un altro vincolo, come dicevo prima. Spesso sono i ricchi a fare il cinema, i borghesi, io però non sono così e a volte mi danno del contadino ma credo sia davvero necessario non dimenticare che questo è un lavoro. È il film a dirmi quanto tempo ci vorrà, se decidi di girare con una persona che sta morendo quello è un vincolo di tempo, non puoi farci niente, sono le regole del gioco. Soldi o non soldi ad un certo punto devi andare.

Y.C.C.: Il tuo modo di mettere in scena sta cambiando. Nei tuoi film precedenti a volte si sentiva quando la scrittura entrava nella realtà per portare avanti la narrazione. In Gigi la legge però ho la sensazione che questo passaggio sia nettamente più organico, si comincia a non vedere dove inizia una e dove finisce l’altra. Dove ti sta portando questo percorso?

A.C.: Sto crescendo anche io mentre faccio i film, certamente. Cerco di imparare a fare il mio mestiere e mi piace imparare da me per poterlo fare a modo mio e non come ci viene detto, con formule e ricette. È più facile usare le regolette qua e là, il climax e tutte quelle altre parole in inglese. Io voglio che il mio film piaccia prima di tutto a me. Quando vai al cinema vuoi vedere uno sguardo personale, originale: ho bisogno di uscirne svalvolato, voglio che mi insegni qualcosa altrimenti non mi interessa. Quindi devo fidarmi, devo essere sicuro di me e di quello che sento, non posso rifugiarmi in regolette coprendomi con tutte le inquadrature di campo, controcampo e totale. Devo fare delle scelte, ma soprattutto devo farmi delle domande. Chi non si fa nessuna domanda non rispetta le persone che sta filmando, è solo un rapporto commerciale, per me il cinema è altro. Può anche capitare che pur facendo a modo tuo fai un film brutto, capita. Oppure fai dei bei film ma non hai modo di mostrarli… è anche culo. Io ho un culo incredibile.

Y.C.C.: È questa paura di ricadere in regole e compitini che ti previene dal lavorare con attori professionisti? Scusa Alessandro, io sono un attore e la questione mi interessa particolarmente.

A.C.: (ride, ndr) Ah, ecco perché. Credo sia un lavoro completamente diverso, non lavoro con gli attori principalmente perché non ne conosco. Non riesco a fare un casting o a chiamare qualcuno perché l’ho visto/a al cinema, ci ho provato ma è stato disastroso. Quindi alla fine non mi è mai capitato ma credo anche per una questione “politica”, preferisco andare verso le persone su cui nessuno mette mai lo sguardo. Come Gigi. Per ora.