Byung-Chul Han, in Eros in agonia, fa riferimento a quella che definisce Leistungsgesellschaft, ovvero “società della prestazione”, in cui il “dovere” viene sostituito dal verbo modale “potere”. In questa accezione l’appello alla motivazione personale risulta più efficace del comando e il soggetto appare come il solo e unico padrone di se stesso, senza essere sottoposto apparentemente ad alcun diktat, e risultando come unico vero artefice del suo destino. Tuttavia, questa forma di autosfruttamento risulta molto più efficace dello sfruttamento stesso, poiché si accompagna a un sentimento di libertà.

Da questa base di senso si sviluppa Arnold Is a Model Student di Sorayos Prapapan, presentato al 75° Locarno Film Festival nella sezione Cineasti del presente. In una Bangkok che, come il resto del mondo, deve fronteggiare il Covid-19, il liceale Arnold, studente modello – inserito all’interno di un sistema di regole incurante delle libertà personali – si trova perennemente conteso fra convenzioni sociali e il desiderio di evasione da un futuro già scritto.

Come nel cortometraggio New Abnormal, in cui i personaggi provenienti da contesti differenti condividono lo scenario della pandemia, l’occhio del regista evidenzia quello che sembra un destino comune della gioventù thailandese: la scelta di un percorso di vita, spesso rigorosamente deciso dalla famiglia, e un’educazione scolastica che predilige il rispetto per le convenzioni sociali sullo sviluppo di un pensiero critico.

Se Han pone il suo soggetto della prestazione in una società in cui il dominio è abilmente camuffato, Sorayos fa un passo ulteriore, mettendo in rilievo come gli studenti si trovino intrappolati in una duplice gabbia: da un lato ciò che proviene dall’esterno, ovvero l’oppressione della società sui loro corpi e sulle loro menti (il “tu devi”), dall’altro l’incurabile ansia del fallimento (il “tu puoi”). Epigoni di questa forte sottotestualità sono le chiacchierate fra Arnold e i suoi compagni di classe, che spegnendo una sigaretta dopo l’altra esprimono la paura di non diventare mai qualcuno, e di non riuscire a guadagnare abbastanza denaro.

La focalizzazione su questa performatività a ogni costo è talmente intensa, ed evidentemente essenziale per il regista, da piegare la trama e la caratterizzazione del personaggio protagonista a un ambiente esterno e all’inizio alieno, che piomba all’interno dell’arco drammaturgico attraverso un turning point: una telefonata da parte di un uomo potente che intende coinvolgere Arnold in un’attività che permette agli studenti di passare gli esami clandestinamente, offrendogli, per il suo aiuto, un buon compenso in denaro. Uno scatto nella storia portato avanti senza sensazionalismi, ma con forti attinenze verso il nocciolo dell’opera stessa, e verso il suo scrutare più profondo.

In questa prospettiva i co-protagonisti e l’antagonista stesso vengono mossi dentro la storia per porre coscientemente l’enfasi su un ulteriore punto, derivativo di quello principale ma altrettanto importante all’interno dell’economia del film: “Cosa si è disposti a fare per assicurarsi un buon posto all’interno della società?”. Tutte questioni che riportano alla traduzione della comunità in una rete di funzionalità, deformando, e forse anche annichilendo, l’empatia e la solidarietà di ognuno verso il prossimo.

Tuttavia Sorayos riesce anche nell’intento di condurre lo spettatore verso sentieri aperti, quantomeno per fugaci speranze: dopo un video che rivela delle punizioni corporali da parte di una delle insegnanti, le studentesse decidono di intraprendere una serie di proteste, lottando per garantirsi il rispetto dei diritti e ottenendo, in pochissimo tempo, notevoli riscontri da parte di tutti i compagni.

Ed è proprio qui, negli ultimi minuti, che sullo sfondo di lotte itineranti ritroviamo Arnold, mentre rilegge in lacrime la lettera di raccomandazione del preside, ma a noi non è dato sapere quale sarà la sua decisione finale, e nel frattempo lo osserviamo, per la prima volta, nella paura di fallire.


Intervista a Sorayos Prapapan

arnold

E.C. Come è nata l’idea del film?

S.P. Il film nasce otto anni fa: ricordo che, parlando con i miei amici, disapprovavano il modus operandi del governo, fondato anche sulla repressione delle libertà personali. Camminando per i corridoi delle scuole, ho compreso realmente il loro stato d’animo e di cosa avevano bisogno. Quello che allora la scuola insegnava era, di fatto: lasciate la Nazione in mano agli adulti.

E.C. Questa idea ha anche a che fare con un certo tipo di educazione che viene impressa ai giovani in Thailandia?

S.P. Esatto. Ai ragazzi e alle ragazze viene sostanzialmente ordinato di rimanere in silenzio, anche nel momento in cui si dovesse percepire che c’è qualcosa che non va nel sistema.

E.C. Si potrebbe quindi dire che in Thailandia ci si concentra di più sull’educare alle buone maniere rispetto all’educare ad avere una “buona anima”?

S.P. Sì, si tratta di un’educazione perlopiù di facciata, dove cercano di convincerti che tutto funziona, anche se in realtà non è così.

E.C. Arnold, il protagonista, è un personaggio profondamente tormentato da questo punto di vista.

S.P. Arnold incarna perfettamente i sentimenti di questa gioventù thailandese. Ha la fortuna di essere nato in una famiglia benestante e di aver fatto esperienze di studio all’estero. Ma, per tutta la durata del film, si trova di fronte a una scelta: rimanere in Thailandia e prendere parte alle proteste oppure seguire un destino che sembra già scritto.

E.C. Il finale aperto esprime al meglio questo suo stato d’animo.

S.P. Sì, è per questo motivo che ho voluto lasciare il finale così. Fino alla fine il ragazzo non è mai completamente sicuro delle proprie scelte.