Nonostante un mondo sempre più multimediale e sessualmente emancipato, si è quasi sempre abituati a pensare all’erotismo entro i termini della sola rappresentazione visiva. Seppur la cultura visuale sia predominante nella configurazione e nell’espletazione dei bisogni e dei desideri dell’umano, è possibile oggi provare a immaginare un tipo di erotismo che si apra anche ad altri organi di senso come, ad esempio, l’udito? Può l’eros consumarsi attraverso il suono? Un caso, declinato a mero uso sensoriale, è il fenomeno dei cosiddetti video ASMR (acronimo di Autonomous Sensory Meridian Response), termine che indica una sensazione di lieve formicolio in varie parti del corpo, formicolio che viene spesso definito anche come “orgasmo cerebrale”. Ma cosa accade quando tale pratica viene elevata a forma d’arte?
In Piaffe, primo lungometraggio di finzione della regista israeliana, Ann Oren riesce a creare un surreale erotismo sonoro, capace di sovvertire convenzioni sessuali e sensoriali. Presentato in concorso al 75° Locarno Film Festival, il film si distanzia con coraggio dalla produzione tedesca degli ultimi tempi, abbracciando e incanalando l’essenza berlinese in un gioiellino queer che richiama il pre-cinema degli esperimenti svolti da Eadweard Muybridge.
Quando lə sorellə Zara – a cui Oren dedica Passage (2020), cortometraggio propedeutico al film – è ricoveratə in un ospedale psichiatrico a causa di un improvviso esaurimento nervoso, l’introversa ed elegante Eva è costretta a sostituirlə come foley artist. Il suo lavoro consiste nel ricreare i suoni di uno spot pubblicitario farmaceutico che vede come protagonista un cavallo, ma l’approccio della ragazza si rivela del tutto fallimentare. “Sembra fatto da una macchina”, le dice il suo superiore. L’artificialità del modo di vivere di Eva si fa specchio di quella stessa alienazione vissuta e alimentata dalla società, che plasma a sua volta un mondo a misura d’uomo e pertanto sempre più incompleto e inadatto. Una società dotata di qualsiasi dispositivo di comunicazione la cui pluralità altro non fa che soffocare l’individuo in un’incomunicabilità e solitudine di fondo. Le parole pronunciate da Eva nel corso del film sono talmente esigue da potersi contare sulle dita di una mano – interessante a proposito la scelta della regista di usare un’interprete messicana, Simone Bucio, che non conosce il tedesco – e, grazie a un progressivo riavvicinamento alla natura, la ragazza è capace di riappropriarsi gradualmente della capacità di connettersi con l’esterno attraverso gesti, danze e suoni.
Inizia così per la protagonista un viaggio catartico nella natura che avviene attraverso l’immedesimazione nella figura del cavallo a cui deve restituire il suono, in un risveglio sessuale e identitario che dà il via a un processo di metamorfosi che fa crescere alla ragazza una coda equina. Questa mutazione fisica la porta da un misterioso botanico che instaura con lei un rapporto di dominazione che molto ricorda il dressage dei cavalli; il piaffe è infatti un’andatura innaturale fatta sembrare il più possibile spontanea e graziosa. Gli sforzi necessari per ottenere questo movimento sono un’incarnazione esemplare del tentativo della società patriarcale ed eteronormativa di tenere sotto controllo l’energia pulsionale simbolicamente rappresentata dal cavallo. Una perfezione illusoria che mostra come i nostri concetti ideali di cosa sia naturale e cosa sia puro altro non sono che un “placebo” per controllare e creare una gerarchia di potere nei confronti dei generi e della specie. In questo senso è decisivo il finale nel quale, dopo una danza mimetica a ritmo di techno dagli echi performativi, Eva, con l’aiuto di Zara, decide di radersi la coda, distruggendo così la feticizzazione che fanno gli uomini di lei, sovvertendo quella dinamica di potere maestro-allieva, padre-figlia, tipicamente erotizzata da una rappresentazione storica iscritta nel male gaze. Nuda e anche esteticamente sgradevole, la nuova coda diventa la sua emancipazione dall’altro, dall’uomo. Quest’ulteriore e (forse) ultima metamorfosi racchiude in sé le sfumature e le pluralità dell’essere umano e quanto, proprio come dice il misterioso botanico a proposito delle felci, “i nostri concetti di maschio e femmina sono ancora insufficienti”, insufficienti per comprendere la natura e la sua indeterminatezza.
Ann Oren ci invita in ultimo ad abbracciare una sinestesia universale, abbandonare le proprie convinzioni e riscoprire la libertà di sperimentare con la propria natura, in un film che va visto con le orecchie e ascoltato con gli occhi.