Per Carlos Conçeicão, regista portoghese nato in Angola, il problema coloniale è un problema non risolto. Naçao Valente, il suo ultimo film, presentato nella 75esimo Festival di Locarno, mette in scena la fine del conflitto angolano (1974) ruotando intorno a questa convinzione: malgrado tutta l’attenzione con cui il presente sta facendo luce sui crimini del passato, il trauma del colonialismo è un rimosso che l’identità collettiva deve ancora elaborare a dovere. Fallimentari a questo proposito sembrano essere per il regista portoghese sia quelle strategie di messa in forma contemporanee che cercano di sintetizzare in immagine il rimosso fissando con un rigido descrittivismo museale gli eventi del passato, sia quelle forme di surplus informativo che per immergere di consapevolezza bombardano la coscienza con immagini superficiali. A nulla serve fissare puntualmente o costringere a espressione un evento storico se non si inquadrano in campo lungo gli effetti di riverbero traumatici che l’evento stesso ancora produce nell’inconscio del presente; è necessario invece trovare un’immagine eccentrica, un’immagine di invenzione che scardini le storicizzazioni rigide e riveli l’urgenza del problema, prendendo in contropiede la maniera del racconto postcoloniale, l’impostazione descrittiva del reportage.
Per trovare questa immagine fuori dalle teche museali e fuori dalle tendenze d’informazione, e perché no, anche fuori dalle usuali posture del cinema di denuncia storica, Conçeicão strattona a piacimento le coordinate temporali e geografiche di riferimento, cerca una nuova lettura degli eventi, propone punti di ingresso inediti nel dettato storiografico. Prima mette in scena lo scontro armato e culturale tra esercito coloniale portoghese e indipendentisti angolani come la storia di un peccato originale, di un inganno compiuto dall’identità europea ai danni di quella africana; poi, staccando completamente dalle ambientazioni storicamente situate della prima parte, ripiega la descrizione del conflitto dentro alle mura di una caserma in cui un piccolo plotone di esecuzione si prepara ad affrontare la guerra per la patria sotto la guida di un colonello invasato.
Proprio nel disorientante spazio vuoto tra queste due tronchi narrativi Conçeicão trova l’immagine in grado di portare a emersione il rimosso: un’immagine, a sorpresa, di genere, cerniera narrativa e simbolica in forma di corpo horror – un corpo che non ha niente della virtualità leggera del fantasma ma tutto del peso specifico di un cadavere che riprende vita e cammina sulla terra per rivendicare giustizia ai vivi – con cui Conçeicão riesce a inquadrare la mancata elaborazione della violenza coloniale come una minaccia evolutiva per l’identità del presente. Difficilmente si vede una messa in scena così lucida e creativa della trasformazione delle pulsioni coloniali di una certa collettività politica in forme di implosione psichica individuale, e, logicamente, dell’azione militare da forza espansiva impiegata verso l’esterno a forza repressiva impiegata all’interno. Viene quasi da pensare alle strategie di un grande regista di genere, acuto interprete della realtà, ormai sempre meno richiamato dalla memoria cinofila, come Carpenter (e proprio un’iniezione di ritmo anni ottanta potrebbe fare bene a questo cinema così ricco e ambiguo): chi mai avrebbe detto che nel cinema portoghese contemporaneo sarebbe stato uno zombie a fare il punto sulla metafisica del fascismo?