É notte in America. Gli animali fuoriescono dalle loro tane per invadere la città. Il cielo pulsa, o meglio, palpita di un bagliore alieno, purpureo. Un formichiere giace senza vita sul ciglio della strada. Come lui, molte altre bestie selvatiche si scontrano con l’ambiente urbano. Si dimenano dalla presa dell’uomo. A volte sfuggono. Altre volte, no. Ma chi sta invadendo chi? Ana Vaz, regista brasiliana classe 1986, ha presentato nel Concorso Cineasti del presente del 75° Locarno Film Festival il suo primo lungometraggio, É noite na America. Vaz, autrice già di quindici film tra cortometraggi e mediometraggi, ha partecipato a alcuni dei più importanti festival internazionali tra cui il New York Film Festival, la Berlinale e il Toronto International Film Festival. Abbiamo discusso con lei del suo nuovo film.
DP: Vorrei partire dalla fine del tuo film. L’ultima immagine a cui assistiamo è la veduta di una cascata. Non a caso nei titoli di coda citi una frase, “Cinema é cachoeira” (il cinema è una cascata), pronunciata dal regista brasiliano Humberto Mauro, pioniere del Cinema Novo. Questa connessione mi ha immediatamente fatto pensare all’ultimo film di Mauro, Carro de bois (1974), che è per me una perfetta sintesi del complesso rapporto che intercorre tra esseri umani e animali. Puoi dirci qualcosa in più sul tuo rapporto con questo regista che sembra essere così importante per il tuo cinema?
AV: Penso che Humberto Mauro non sia stato importante soltanto per il mio cinema ma che lo sia stato per l’ancor più ampio spettro del cinema brasiliano e sudamericano in generale. Diciamo che una persona come Humberto Mauro, facendosi portavoce di una grande critica nei confronti della modernità e della vita moderna, ha ricoperto un ruolo essenziale nelle radicali trasformazioni e suggestioni che il cinema stava attraversando in quell’epoca. In una prospettiva molto personale, non è una coincidenza che Humberto Mauro nacque e girò i suoi film a Cataguases, la città che possiamo prendere come prototipo per il modernismo in Brasile. Questa è la città nella quale Oscar Niemeyer, architetto brasiliano considerato come una delle figure chiave nello sviluppo dell’architettura moderna, edificò le sue prime costruzioni. Era una sorta di laboratorio per molti aspetti della modernità radicale. Credo che il cinema di Humberto Mauro, già nei primissimi momenti della storia del cinema, posizionò la macchina da presa in quegli stessi spazi liminali tra ciò che chiamiamo cultura e ciò che chiamiamo natura. Mi sembra molto significativo per poter ragionare sulle enormi catastrofi che oggi la modernità coloniale ci ha portato. Quindi la citazione alla fine del film è un omaggio e un riconoscimento alla forza di qualcuno come Humberto Mauro, con una frase che possiamo interpretare come sia filosofica che metafisica. La cascata è una cosa molto materiale dalla quale però possiamo anche trarre un’enorme quantità di significato. Alcune persone possono leggere “Cinema é cachoeira” come una frase che mette in relazione il movimento della cascata con il movimento del film, il movimento del vento. Un movimento costante sotto forma di 24 fotogrammi al secondo. Ma possiamo anche leggerla in un modo più metafisico, che è il modo in cui a me piace leggerla, ovverosia che la cascata stessa sia una forma di cinema. Qualcosa che è già, e sempre, una forma di cinema che non sia prodotta dagli esseri umani quanto piuttosto un cinema che è tutt’intorno a noi, nella ricchezza di tutte le forme di vita che ci circondano e che producono, ciascuna, le proprie forme di esperienza cinematografica. La cascata è una di queste, e possibilmente una molto grande.
DP: A proposito di differenti forme di cinema: prima di É Noite Na América hai realizzato soltanto corti e mediometraggi. Qual è stata la più grande differenza nel dar invece forma a un lungometraggio?
AV: È molto curioso perché la prima cosa che devo ammettere è che non mi sarei mai aspettata che É Noite Na América sarebbe diventato un lungometraggio. Ho deciso di iniziare a filmare qualcosa che stava accadendo proprio davanti ai miei occhi, ovvero il dislocamento di così tante forme di fauna selvatica attorno a me; tutto ciò che sentivo era il desiderio di filmare al più presto. Non scherzo quando dico che è un film che ha attraversato il mio percorso molto più di quanto abbia io attraversato il suo. Non è stato un film per il quale ho passato molti anni a tramare, ricercare e ragionare quanto piuttosto un film che è emerso di fronte a me nel momento in cui ho iniziato a trovare i cadaveri e le carcasse degli animali investiti dalle macchine proprio nel mezzo della mia città natale. Da lì in poi ho chiamato il direttore della fotografia del film, Jacques Cheuiche, che è stato un grande alleato e nel bel mezzo di una lunghissima e bellissima notte di superluna nella zona centro-occidentale del Brasile – e coloro che conoscono la zona centro-occidentale del Brasile sanno quanto siano intense queste notti – penso di aver detto “Jacques, devi venire a Brasilia. Ho la sensazione che dobbiamo iniziare subito a filmare l’odissea che ruota attorno questi animali che sono intrappolati all’interno della città. E dobbiamo farlo usando l’effetto notte”, in francese la nuit américaine, che ha un grande significato perché ovviamente è una tecnica molto sviluppata durante i primi momenti della storia del cinema ma non particolarmente utilizzata in occidente. Come sappiamo, i film western sono famosi per aver messo in scena il momento in cui i coloni sono giunti per invadere e strappare la terra ai nativi. Ho sentito dunque, in questo senso, che un western mi si stava rivelando. Un western notturno in cui invece di avere personaggi umani avremmo avuto personaggi animali. Questo è tutto quello che sapevo. Non avevo alcuna idea della durata.
DP: L’intero film è girato con stock di pellicole scadute. Questo porta nel processo la variabile dell’inaspettato. Certamente non avevi la possibilità di guardare i giornalieri come si faceva una volta e, anzi, addirittura ti sei messa nella situazione in cui non potevi nemmeno sapere se le immagini che stavi filmando sarebbero esistite. È quasi un atto performativo. Come gestisci l’inaspettato sia durante la fase di ripresa sia più tardi quando, in sala di montaggio, hai finalmente la possibilità di vedere ciò che hai filmato?
AV: Possiamo chiamarlo performativo se la performance è ciò he ci unisce al tempo presente dell’intera esperienza, ciò che ci unisce all’esperienza stessa. Per me il cinema è prima di tutto uno strumento per intensificare le esperienze. Sono più che altro molto interessata a qualcosa che potremmo chiamare come cinesituazioni, le situazioni del cinema o situazioni cinematografiche. Queste per me sono più importanti di qualsiasi film. Più importanti di qualsiasi immagine che possa essere prodotta. Ho molta fiducia e credo che l’incontro stesso della troupe, dei macchinari, delle persone e di tutti gli ambienti che abbiamo attraversato durante la realizzazione del film sia un qualcosa che già di per sé abbia lasciato delle tracce. È solo che non sappiamo quali possano essere queste tracce. Queste tracce, nel caso del mio film, non sono condotte. Non cerco di dominarle, controllarle, illuminarle, dirigerle. Posso avere una percezione o delle sensazione su dove vorrei che queste tracce andassero e posso cercare il più possibile di ricambiare le energie che vengono date nella realizzazione del film e dal film stesso. Si trattava di pellicole destinate a essere buttate via, pellicole fragili delle quali non puoi controllare le reazioni chimiche che accadono all’interno di ciascuna di esse. Direi che il primo momento delle riprese è sempre così intenso, così pieno di vita, così pieno di scambi di energia che c’è poi questo momento, diciamo, di metabolizzazione, di digestione e di confronto con tutto ciò che abbiamo vissuto per cui dobbiamo lasciare che queste esperienze sprofondino nella materialità stessa del film. Era un completo, come direbbe Jacques, “salto nel buio”. Sentivamo che avremmo potuto avere un film interamente composto di impronte e brontolii, di graffi sull’immagine. C’era qualcosa nella dissoluzione dell’immagine che mi interessava. E quando finalmente ho visto le immagini ho sentito che avevano bisogno di tempo. Che avevano bisogno di durata. Sono sempre portata a pensare che sia il film a determinare la durata molto più di quanto io desidero che duri. Il film mi chiedeva una certa lunghezza e io gliel’ho data. La co-montatrice del film, Deborah Viegas, mi ha detto qualcosa che riassume molto bene tutto questo. Ha detto: “Ana, penso che molto più che montare in base a ciò che potremmo desiderare, quello che stiamo cercando di fare consiste nel trovare il miglior ambiente possibile per l’esistenza di queste immagini.” Mi piace pensare che ci sia un’archeologia delle immagini in gioco. Ci sono delle tracce e sta a noi decifrarle e scoprire cosa sono destinate a diventare.
DP: L’effetto notte rappresenta uno strano punto di intersezione dell’istanza cinematografica. È come se fondendo il giorno e la notte assieme si costituisse un terzo luogo. Un altro regno nel quale si erge la figura del gufo. Il gufo sembra essere il medium attraverso il quale ci è concesso di accedere a questo mondo proprio in quanto, il gufo, esattamente come uno spettatore cinematografico, è capace di vedere attraverso l’oscurità. In una scena vediamo le pupille del gufo dilatarsi e una luce a led accecarlo alla stessa maniera in cui anche noi siamo accecati da questa luce.
AV: Questo momento, che è un momento molto significativo del film, è un momento che cristallizza qualcosa che l’intera pellicola cerca di fare e, cioè, catturare, percepire e vedere il momento in cui lo sguardo storico del cinema, che è una specie di sguardo passivo dissimulato che guarda il mondo (ma che non è mai guardato), ci guarda. In questo momento siamo guardati, L’animale ricambia il nostro sguardo. Hai descritto il momento in cui lo spettatore guarda il gufo, ma c’è anche questo momento, che trovo piuttosto forte e filosofico, in cui l’animale guarda i cosiddetti umani che lo guardano a loro volta. Ed è in questo momento in cui siamo guardati che veniamo messi di fronte alla realtà stessa delle catastrofi di cui siamo debitori. Per me è questo il momento più importante, questo “sguardo questionante” del gufo e di tutti gli altri animali che sembrano guardare alla macchina da presa come se stessero guardando noi. Questo per me è uno dei messaggi più forti e importanti del film. In tutti i miei film c’è qualcosa che è costantemente in gioco e cioè una tensione, un conflitto… questa differenziazione tra lo sfondo e il primo piano. Se pensiamo alla storia della pittura e alla storia del cinema, queste sono state storicamente scritte da un primo piano troppo spesso dettato dal dramma umano, dalla figura umana come soggetto e struttura organizzativa del cosiddetto sfondo. Sempre meno importante, sempre meno visibile. Direi che il cinema che cerco di proporre cerca di ribaltare questo rapporto. Che si tratti di fiumi, di architetture, di insetti, di persone che hanno subito la violenza della modernità occidentale, tema presente in molti dei miei film.
DP: Il tuo cinema si dispiega come un atto di resistenza, si schiera dalla parte delle “vittime” senza mai ritrarle come tali. In Apiyemiyekî? (2020) parli del genocidio delle popolazioni Uaimiris-atroaris nel 1970 durante la dittatura brasiliana e qui metti in scena la progressiva invasione delle infrastrutture umane nel mondo animale e viceversa. Come riesci a trovare un punto di vista che sia in grado di non vittimizzare mai questi soggetti?
AV: Sì, mai vittimizzarli, anche se penso che riconoscere gli orrori commessi contro tutte questi soggetti che appaiono nel film sia un aspetto molto importante della lotta e della convinzione che il mio cinema cerca di ritrarre. Penso che questo sia un cinema profondamente devoto a qualcosa che chiamerei come moltiplicazione delle prospettive. Combattere contro l’enorme violenza dell’omogeneizzazione della prospettiva occidentale moderna come prospettiva unica e unificante attraverso la quale guardare il mondo. E sento che è proprio il fallimento e l’orrenda catastrofe perpetrata da questo unico punto di vista che il mio cinema sta cercando di sfidare, moltiplicando le prospettive che guardano indietro a quest’unica prospettiva originaria e la rifiutano. Rifiutarla per abbracciare narrazioni diverse, voci diverse, suoni diversi che arricchiscano e aiutino e riconnetterci con il tessuto vivo della materialità del mondo in cui viviamo. Un mondo completamente intossicato e profanato dai principi della modernità coloniale.
DP: Oltre all’immagine, sono rimasto molto colpito dall’uso che fai della musica. Questa tromba e questo trombone mi hanno dato quella strana sensazione che si prova quando, a notte fonda su una tv impolverata, stai guardando un vecchio film di fantascienza degli anni ’50 o un episodio di The Twilight Zone (AV ride, ndr). Ho poi scoperto che la musica è stata composta da Guilherme Magalhães Vaz, compositore storico di molti film di Julio Bressane e Nelson Pereira dos Santos e, anche, tuo padre. Qual è il tuo rapporto con l’uso della musica extradiegetica che, in un certo cinema sperimentale, è spesso vista come un tabù, qualcosa di cui non dovresti fare uso? E poi, in che modo avere un padre che ha sempre lavorato nel cinema, non con le immagini ma con il suono, ha influenzato te e il tuo approccio al cinema?
AV: Questa è una grande domanda. Il tabù dell’uso della musica per me deriva da ciò che più odio di alcuni rami del cinema che sono estremamente dogmatici. Non c’è niente di dogmatico in quello che faccio. C’è sicuramente una fede e un rispetto per ciò che è venuto prima di me e ciò che potrebbe venire dopo di me. Il mio rapporto con la musica di mio padre e il suo lavoro è tanto embrionale quanto spirituale. È tanto reale quanto affettuoso. È tanto primitivo quanto, non so, concreto. Sono nata in un ambiente nel quale per mio padre suono e musica – e questo è qualcosa di importante da notare per quanto riguarda le sue composizioni – venivano pensati come qualcosa che era intrinsecamente connesso alle stesse vibrazioni e agli stessi suoni del mondo che ci circonda. Non era qualcuno che lavorava solo e soltanto con la classica orchestra musicale. C’è sempre già una musica da qualche parte. Possiamo vedere alla fine del film un omaggio che io faccio nei suoi confronti nel quale trascrivo tutti i dettagli tecnici dell’album in cui compare Panthera Onca (2001), la composizione che ho utilizzato. La trascrizione dice qualcosa, viene citata questa frase latina, “Ipsa sonant arbusta” (anche gli alberi risuonano). Penso che molte delle sue composizioni riguardino davvero le implicazione di ciò che ho appena detto. In molti dei miei film, da Apiyemiyekî? a É Noite Na América, a Sacris Pulso (2008) c’è un dialogo continuo, non solo con la musica che è stato in grado di produrre ma con quale fosse il significato di questa musica, con ciò che porta come voce, come messaggio, come un tremore presente in ognuno di questi film, come un elemento importante tanto quanto l’immagine stessa. Puoi vedere come in tutti i miei lavori i rapporti tra la verticalità e orizzontalità, cioè suono e immagine, sono costantemente modulari. Non c’è immagine che sia più importante di un suono e viceversa. I film sono tanto sonori quanto visivi. E con la musica in questo caso, Panthera Onca, come dice il titolo – panthera onca è il nome scientifico del giaguaro sudamericano – c’è un dialogo diretto. Un dialogo con le implicazioni che questa composizione detiene e che mio padre ha descritto come, e cito: “Panthera Onca si ispira al momento in cui il giaguaro sudamericano guarda le stelle e vede la luminosità delle stelle riflessa nei suoi occhi.” Già nella descrizione della composizione vediamo questo desiderio di reciprocità dell’animale che guarda ed è guardato. Dell’animale che rompe il patto di questa enorme separazione che c’è tra noi umani e loro animali. Quindi per me usare Panthera Onca, che è una composizione costituita da molti movimenti diversi, è stata una conversazione molto importante e un omaggio per attualizzare una musica che in realtà – ho scoperto di recente – aveva realizzato per un film di Sérgio Bernardes, un altro regista che ha girato nella regione amazzonica così come mio padre ha vissuto lì per molti molti anni. Era un film documentario contro la caccia illegale di giaguari selvatici in Amazzonia. Quindi sono molto felice che il film possa essere un nuovo incantesimo per la colonna sonora. La colonna sonora per me è come una voce. È interessante che tu dica fantascienza. In effetti c’è qualcosa di fantascientifico nel film. C’è un genere a cui era per me molto importante pensare mentre giravo ovvero il genere dell’eco-horror, che nella storia del cinema è tipicamente un genere di film di serie B ma nel quale gli animali selvatici fanno ritorno in qualche modo a quegli spazi urbani loro strappati per rivendicarli e ribellarsi alla violenza che hanno subito.
DP: I’d like to start with the ending of your film. Your final image is the view of a waterfall and in the credits you quote a sentence, “Cinema é cachoeira” (Cinema is a waterfall), said by the Brazilian director Humberto Mauro, pioneer of the Cinema Novo. This connection immediately made me think to Mauro’s latest film, Carro de boi (1974), which is to me a perfect synthesis of the complex relationship between men and animals. Can you tell us a little bit more about your relationship with this film director who seems to be so important to your cinema?
AV: I think Humberto Mauro is not someone who is only important to my cinema but I think he is important in the large spectrum and dimension of Brazilian and South American cinema in general. Let’s say that someone like Humberto Mauro is essential in the radical transformations and suggestions that his cinema was making and for me he had great critiques for modernity and modern life. For me, in a very personal way, it is not a coincidence that Humberto Mauro was born and filmed in Cataguases, the city that we can see as kind of a prototype for modernism in Brazil. This is the city where Oscar Niemeyer, a Brazilian architect considered to be one of the key figures in the development of modern architecture, built his first constructions. It was kind of a laboratory for many aspects of the radical modernity. Henceforth, I think that the way in which Humberto Mauro’s cinema, in the very early moments of the history of cinema, already places the camera in the very liminal spaces between that which we call culture and that which we call nature. It seems to me very significant in order for us to think today about the enormous catastrophes that colonial modernity has brought us. So the quote at the end of the film is an homage and a recognition of the force of someone like Humberto Mauro, with a sentence that we can see is both philosophical and metaphysical. It it a very material thing that has an enormous amount of meaning that we can take from. Some people can read “Cinema é cachoeira” as a kind of sentence that relates the movement of the waterfall to the movement of film, the movement of wind. A movement of consistent motion in the form of 24 frames per second. But we can also see it in a more metaphysical way which is the way I like to take it, which is that the waterfall itself is a form of cinema. Henceforth that it is already and always a form of cinema that is not only produced by a certain kind of humans but rather a cinema that is all around us, in the richness of all forms of life that surround us and that produce their own forms of cinematic experiences. The waterfall being one, and possibly a very great one.
DP: Talking about different forms of cinema: before making É Noite Na América you previously only realized short and medium-length films. What was the biggest difference in giving shape and form to a feature film?
AV: Well that’s very curious because the first thing I have to say is that I never expected É Noite Na América to be a feature film. I set myself out to just begin filming something that was happening right in front of my eyes which was the displacement of so many forms of wildlife around me that all I felt was the crave for an immediacy to film. I’m not joking when I say that it is a film that traversed my path much more than I traversed its. It wasn’t a film that I spent many years plotting, researching and thinking but rather a film that emerges right in front of my eyes as I started finding the cadavers and dead bodies of animals run over by cars in the middle of my native city. From there onwards I called the cinematographer of the film, Jacques Cheuiche, who has been a great ally and in the middle of a very long a beautiful night of a supermoon in the mid-west of Brazil – and those who know the mid-west know how strong these nights are – I think I said “Jacques, you have to come to Brasilia. I have the feeling that we have to start filming this entire odyssey around these animals that are trapped inside the city. And we have to make it using the day for night”, in french la nuit américaine, which holds a great significance because of course it’s a technique very much developed during the early moments of cinema but not particularly used in the west. As we know western films are very much known for staging the moment that settlers came in to invade and take off the land. So in this sense I felt that a western was revealing itself to me. A nocturnal western in which rather than having human characters would be with animals. This is all I knew. I had no idea of duration.
DP: The entire film is shot in expired film stock. This brings in the variable of the unexpected. Of course you didn’t have the chance to watch the dailies, you even put yourself in the situation in which you didn’t know if the images you were filming would even exist. It’s sort of a performative act. How do you deal with the unexpected, both during the shooting and later, when you finally can see what you filmed, in the editing room?
AV: We can call it performative if performance is that which unites us to the present tense of the whole experience, and with experience itself. For me cinema is first and foremost an instrument to intensify experiences. So I’m more than anything very interested in something that we can call cinesituations, the situations of cinema, the cinematic situations. This for me is more important than any final film. More important than any image that can be produced. I have much faith and believe that the very encounter of the crew, the machines, the people and all the environments that we traversed as we are experiencing the making of the film is something that in itself will leave traces. It’s only that we don’t know what these traces may be. These traces in the case of my film are unmastered. I’m not trying to master, to control, to illuminate, to direct, to dictate what the imprints will be. I can have some senses or some feelings of where I would like them to go and try as much as I can to reciprocate the energies that are given into the making of the film and into the film itself. We were dealing with film stocks that were destined to be thrown away. Films that were fragile and of which you cannot control the chemical reactions that are happening inside each one of those cans. I would say that the first moment of filming is always so intense, so full of life, so full of intensity and energy exchange that then there is this moment of, let’s say, metabolization, of digesting and dealing with everything that we have experienced and letting these experiences to sink in the very materiality of the film. It was a complete, as Jacques would say, “shot in the dark”. We felt that we might had a film entirely made of just imprints and rumbles of images and grains of images. There was something about the dissolution of the image that interested me. And when I finally saw the images I felt that they needed time. That they needed duration. So I’m always led to think that it is the film that dictates its length much more than how much I desire it to last. The film asked me for length, and I gave it. The co-editor of the film, Deborah Viegas, said to me something that resumes all of this very well. She said “Ana I think that much more than editing according to what we may wish for, what we’re trying is to find the best possible environment for these images to exist.” I like to think that there’s an archeology of the images at play. There are traces and its up to us to decipher them and discover what those traces are going to be.
DP: The day for night represents a strange point of intersection of the cinematographic instance. It’s as if the merging of day and night together constitutes a third place. Another realm in which the figure of the owl stands out. The owl seems to be the medium through which we can enter this world because the owl, exactly like a cinema spectator does, is able to see in the dark. In one scene we see the owl’s pupils dilate and a led light blinding him the same way we are blinded by the light.
AV: This moment, which is a very significant moment of the film, is a moment that crystallizes something that the entire film is trying to do, which is to capture, to sense and to see the moment in which the historical gaze of cinema, which is a kind of dissimulated passive gaze that looks at the world, but its never looked at – so the camera is kind of a passive observer of the world – in this moment we are looked at. The animal returns our gaze. You described the moment of the spectator watching him but there’s also this moment that I think is quite strong and philosophical of the animal looking back at us, so called humans, looking at him. And in this moment of looking back at us he confronts us with the very reality of the catastrophes that we are indebted. And for me it’s this moment, the questioning eyes, the questioning gaze of the owl and of all the animals that seem to look at the camera as if they were looking at us. This for me is one of the strongest and most important messages of the film. In all of my films there’s something that is consistently at play which is a tension, a conflict… this differentiation between the background and foreground. If we think about the history of painting and the history of cinema, those have been historically written by a foreground that is all too often dictated by human drama, by the human figure as the organizing subject and structure of the so called background. Always less important, always less visible. I would say that the cinema that I try to propose tries to reverse this relationship. Be it rivers, be it architectures, be it insects, be it the people who have been subjected to the violence of western modernity, a very present theme of many of my films.
DP: Your cinema deploys itself as an act of resistance. it takes the side of the “victims” without ever portraying them as such. In Apiyemiyekî? (2020) you talk about the genocide of the Uaimiris-atroaris people in 1970 during the Brazilian dictatorship and here you exhibit the progressive invasion of human infrastructures into the animal world and vice versa. How are you able to find a point of view which is able to never victimize these subjects?
AV: Yes, never victimize them even though I think that recognizing the horrors committed against all these people that appear in the film is a very important aspect of the struggle and conviction that my cinema tries to portray. I think this is a cinema deeply devoted to something that I would call the multiplication of perspectives. Fighting against the enormous violence of the homogeneity of the western modern perspective as the unifying and only perspective from which we can look at the world. And I feel that it is precisely the failure and the horrendous catastrophe perpetrated by this single viewpoint that my cinema is trying to defy. So multiplying perspectives that look back at this primal perspective and refuse it. Refuse it to embrace different narratives, different voices, different sounds that enrich and help us reconnect with the living tissue of the materiality of the world in which we live in. A world completely intoxicated and desecrated by the principles of colonial modernity.
DP: Apart from the image, I was very impressed by the use you make of music. This trumpet and trombone gave me that weird feeling when, late at night on an dusty tv, you are watching an old sci-fi movie from the 50s or an episode from The Twilight Zone (AV laughs, editor’s note). I then discovered that the music was composed by Guilherme Magalhães Vaz, historical composer of many films by Julio Bressane and Nelson Pereira dos Santos and, also, your father. What is your relationship with the use of extradiegetic music which, in a certain experimental cinema is often seen as a taboo, something you shouldn’t make use of. And also, how having a father who has always worked in cinema, not with images but with sound, influenced you and your approach to moviemaking?
AV: That’s a big question. The taboo of using music for me comes from what I hate the most about certain strains of filmmaking that are extremely dogmatic. There’s nothing dogmatic about what I do. There’s certainly a faith and a respect for that which has come before me and that which may come after me. My relationship with my father’s music and my father’s work is as embryonic as it is spiritual. It is as real as it is affectionate. It is as primitive as it is, I don’t know, concrete. I was born in an environment in which sound and music – and this is something important to note in regard to his compositions – he was not someone who was only working with the classical musical orchestra but he thought about music as something that was innately connected to the very vibrations and sounds of the living world. Hence, there is, always already music somewhere. We can see at the end of the film I make an homage to him in which I transcribed all of the technical details of the album in which Panthera Onca (2001), the composition that I used, appears. And it says something, it quotes this latin phrase, “Ipsa sonant arbusta” (Even the trees sing). I think so much of his compositions are really about the implications of that which I have just said. So in many of my films, from Apiyemiyekî? to É Noite Na América, to Sacris Pulso (2008) there is a continuous dialogue, not only with the music that he was able to produce but with what the meaning of this music was, with what it brings as a voice, as a message, as a trembling that is present in each single one of these films, as an element that it’s as important as an image. You can see that in all of my works the relationships between the vertical and the horizontal, meaning sound and image are constantly modular. There is no image that is more important than a sound and vice versa. The films are as sonic as they are visuals. And the music in this case, Panthera Onca, as the title says – panthera onca is the scientific name of the South American jaguar – there is a direct conversation. What the implications of this composition that my father described as, and I quote “Panthera Onca is inspired by the moment in which the South American jaguar looks at the stars and has the brightness of the stars reflected back in his eyes.” So already in the description of the composition we see this desire for reciprocity of the animal that gazes and it’s gazed back. Of the animal that looks, of the animal that breaks the pact of this enormous separation between us and them. So for me using Panthera Onca, which is a composition made by many different movements, was a very important conversation and homage to actualize the composition that actually I’ve found out recently he made for a film by Sérgio Bernardes, another filmmaker who filmed in the Amazon region for many years as well as my father also lived there for many many years, and it was a film that was a documentary against the illegal hunting for wild jaguars in the Amazon. So I’m very happy that the film can be a new incantation to the soundtrack and the soundtrack for me is like a voice. It’s interesting that you say sci-fi. There is something sci-fi in the film actually. There’s a genre that was very important for me to think about while I was making the film which is the eco-horror genre, which is a kind of B-movies genre in the history of filmmaking but in which the wild animals kinda return to urban spaces to reclaim and revolt against the violence that has been committed against them.