Il fragoroso battere sui tasti di un PC, le appannanti volute del fumo di sigarette; le lettere scorrono sullo schermo mentre un flusso di coscienza si fa incessante, caotico, claustrofobico. Dalla sua stanza Alessandro Aniballi dialoga con un computer, una macchina che funge da valvola di sfogo, unico compagno capace di assecondare il suo delirio. Perché di delirio si tratta, un’ossessione che passando attraverso una carrellata di sindromi dispiega il senso della massima di Giovanni Spagnoletti, fatta sua anche dall’autore: «La cinefilia è una malattia, chiaramente!» Ma come declinare un simile concetto in immagini? Premiato a Bellaria, Aniballi esaudisce il suo cinefilo bisogno con un’opera che non è film, un’opera che non è saggio, un’opera che nella sua audace complessità è semplicemente cinema: Una claustrocinefilia è un film-non film che stupra se stesso e lo fa per amore, che ripercorre la storia, omaggiando e anatomizzando i maestri, perso nella scissione tra critica e regia, «tra delirio di onnipotenza e umiltà da mentecatto».
Come spiegare e fare il cinema se non attraverso di esso? Ripercorrendo i suoi corpi, le sue trame, in un sovrapporsi di pellicole che continuano a risuonare nella testa del regista. È il fare che si mescola all’indagare, è il rispondersi indagando se stesso e gli altri, e il domandarsi quanto le risposte possano essere davvero chiarificatrici.
La pandemica prigionia lascia ai soli piccoli schermi di casa l’arduo compito di mantenere vitalmente attiva la settima arte, qui assoluta protagonista, sostenuta e rinvigorita da un personal computer e dal personale turbinio di pensieri interni del critico-regista; un turbinio tramutato in parole e rigettato in voce, in suono, a volte titubante, altre ridondante, ma di una dirompente e disperata sincerità. Aniballi nel parlarle al PC parla a noi e comunica con il suo io più irrequieto e complesso, converte il monitor in specchio, riprende il suo volto e, con un gioco malato quanto personale, si priva in di ogni tipo di schermatura, spogliandosi in maniera goffa dei suoi disturbi.
Vi è in principio la chimerica figura di Benicious, la prima sindrome, una leggendaria entità senza fissa dimora, che trova un tetto solamente inseguendo i festival, da nomade che vive il cinema dall’interno e vive solo di quello. È l’alter-ego dell’autore, un tempo anch’egli cineasta vagabondo al seguito delle realtà festivaliere ed ora in gabbia, soffocato dalle turbe che affiorano nel realizzarsi prigioniero di se stesso, del suo isolamento totale, della sua incomunicabilità. Le restrizioni divenute costrizioni hanno ucciso per lungo tempo la condivisione, elemento cardine di quelle manifestazioni insopprimibili per chi fa dell’amore per l’arte una malattia. I festival sono rimasti muti, incapaci di potersi esprimere così come i propri protagonisti. Alessandro Aniballi, anche filosofo, riporta Heidegger: «Il linguaggio è la casa in cui l’uomo abita», ma si mostra fragile ed alieno alla sua stessa voce, mal sopportata, mai precedentemente registrata, ed ora prepotentemente depositatasi sul fondo di questo film-saggio, più forte del suo volere, più rumorosa del silenzio del suo isolamento. Da Benicious a São Jerônimo, desertica figura protagonista di immagini essenziali, emblema dell’isolamento, della distanza dal tutto; dalla lingua al sapere inutile, che è in realtà non necessario, immateriale, ma «utile per sviluppare la propria identità» e quindi anch’esso essenziale, vitale. Un susseguirsi di sintomatologie apparentemente casuali ma unite da un indelebile filo invisibile, che attraversa anche l’orgasmica e minuziosa analisi di un fotogramma di Orson Welles, osannato, e si conclude col neologismo che racchiude tutto: la «la sindrome claustrofobiografica». Nel momento della ritrovata libertà l’autore, davanti a un piccolo schermo diventato immenso, si sente ancora incatenato nella sua prigione, quella stanza dalla quale si domanda se sbirciare all’esterno per poi varcare la soglia, se voltarsi indietro e realizzare il vuoto, se affrontare il buio, asfissiante, claustrofobico, ignoto. Le sigarette si spengono, il fumo si dirada, i tasti cessano di battere ed è tutto nero: schermo nero.