I buoni ricordi di te sono sepolti nella mia memoria.
Ci sono terreni sassosi sui quali perfino le erbacce si rifiutano di spuntare perché il sottosuolo nasconde una sorgente che chiede soltanto un colpo di zappa per zampillare e trasformare un pezzo di deserto in un’oasi. Nell’attesa ho i piedi insanguinati a forza di camminare nelle pietraie.
(Papà, Régis Jauffret)
Sappiamo che Frantz Fanon chiese personalmente di essere trasferito a lavorare in un ospedale in Algeria, proprio negli anni dell’insurrezione armata e il successivo generalizzarsi della “pacificazione” francese. Come testimoniano i suoi scritti e l’appoggio al Fronte di Liberazione Nazionale, questa scelta non solo condizionò la sua ricerca nel campo degli studi psichiatrici e psico-sociali sul colonialismo, ma fu sopratutto l’occasione per lui di trasformarsi in quanto uomo, nel contatto diretto e “violento” con la realtà (scelte così estreme che gli costarono un’espatrio in Tunisia e la successiva malattia terminale). Allo stesso modo, in un viaggio dall’altra parte del Mediterraneo, Karim Aïnouz ripercorre le tracce paterne, algerino di origine ma spinto nei suoi viaggi fino in Brasile, dal cui incontro con la giovane Iracema nascerà Karim. Un padre che però abbandonerà la compagna e non avrà tempo di conoscere il figlio siccome anche lui, come Fanon, si sentirà in dovere di tornare alla sua terrà per combattere, senza mai tornare indietro.
Attraverso un montaggio rapsodico di immagini rubate da strade, cielo e mare, Mariner of the Mountains colpisce per la sua contagiosa umanità. Il film si posiziona a cavallo fra il carteggio intimo e il flusso di coscienza di una voce narrante densa, quella di un figlio che cerca consiglio dal fantasma della madre (pensiamo a News from Home della Akerman, ma anche ai video-diari di David Perlov). Punteggiato da schiere di dubbi e piccole epifanie, quello in Algeria non solo sarà un viaggio alla ricerca delle proprie radici estirpate, ma di un profondo desiderio di riconoscersi in ciò che è diverso, nella personale volontà di cambiare. Mosso da questo sentimento, l’atto di filmare volti e luoghi è profondamente rispettoso. Le immagini di vecchi, bambini, uomini e donne davanti alla camera è sempre accompagnato dalla voce del regista che giustifica le vicende e la ragione per cui si trova lì in quel preciso momento, lasciando che le immagini appaino nella loro genuinità e sappiano raccontare un mondo che non vediamo. E anche se capita che qualcuno possa sentirsi a disagio davanti all’obbiettivo, il sintomo di questo imbarazzo diventa l’occasione per svelare un’umiltà malcelata e ancora più commovente.
Percorriamo strade che portano i segni di un passato carico di sacrifici e sofferenza, fra le testimonianze di chi auspica un futuro migliore e chi sorride difendendo la gioia di vivere la sua terra. In Mariner of the Mountains si innesca un doppio meccanismo, per cui la trasformazione che il popolo algerino ha dovuto sopportare sembra quasi rivendicarsi sul senso di appartenenza frastornato del regista, chiamato fuori da sé da una voce antica e misteriosa come i marinai colpiti dalla “calentura”, una febbre delirante che li spingeva in mare.
C’è una scena in cui l’approccio del documentarista si lascia guidare ciecamente da questa voce, ed è quando un’anziana signora gli chiede di rappresentare il suo villaggio nel modo migliore possibile. Nell’inquadratura successiva, prestando fede alla promessa, Aïnouz ci mostra un panorama bucolico e maestoso, capace di racchiude una felicità profonda anche se passeggera: quella di poter trovare negli occhi di un qualcun altro il proprio sguardo sul mondo.