Girato in piano sequenza (gli unici stacchi sono quelli necessari per ricaricare la pellicola della Kodak 16mm), The Walk di Giovanni Maderna è un esempio di cinema come atto spontaneo, capace di imprimere un sentimento più che un racconto, un’atmosfera più che un paesaggio. Lino Musella si aggira per le strade di Roma, mangia pasta aglio e olio e indossa giacche troppo larghe, in un film fatto di incontri e di momenti istantanei, catturati dal direttore della fotografia Robbie Ryan in quella che è la trasposizione cinematografica dell’opera letteraria The Walk, di Robert Walser.
Come è nata l’idea di The Walk?
Mentre ero a Roma facevo delle camminate la mattina o la sera, il percorso era lo stesso del film. Rileggendo il libro di Walser, che è anche un manifesto della sua poetica, ho pensato che potesse diventare un lavoro fatto con lo stesso spirito, cioè con la volontà di catturare il piacere libero della camminata con il cinema invece che con la scrittura, mantenendo quel senso di decisione improvvisa e spontanea e non pre-ordinata. Cosa paradossale perché il film ha bisogno di una certa programmazione, anche solo per quanto riguarda le autorizzazioni. Sin dalla fase produttiva abbiamo cercato di preservare questa libertà.
Il film infatti sperimenta questa leggerezza di un atto unico e non modificabile. Il cinema ha una sua pesantezza, il libro ha una sua leggerezza. Come hai lavorato con questa dicotomia sia fisicamente che produttivamente.
Inizialmente l’ipotesi era di girare con un attore internazionale, che però poi non si è concretizzata a causa di un problema di budget. Con meno disponibilità economica però si ha più spontaneità e autonomia nel decidere di uscire di casa e girare come fosse una decisione del momento. È stata una vera lotta dal punto di vista produttivo e legale, eppure con Robbie, che ha girato tenendo la camera sul palmo della mano per tutta Roma, e Lino, che non è mai uscito dal personaggio, siamo riusciti a concretizzare ogni aspetto stilistico che ci eravamo prefissi. Il mio metodo consiste sempre nel pensare un film per il pubblico e poi farlo a pezzi in molti modi: frantumarlo, scarnificarlo, senza la pazienza di riempirlo di tutte le coloriture della convenzione.
Il tuo cinema ricerca un atto di liberazione spontaneo che esiste in un dato tempo e in un dato spazio. Volevo capire se è così che pensi il tuo cinema e come si lega all’uso della pellicola in The Walk.
Io credo fermamente nelle regole del gioco. Nei miei film la spontaneità resta comunque inquadrata in alcune regole specifiche. Quello che ne deriva spero sia un film in cui i nostri sensi di spettatori si possano attivare. Il piacere e la soddisfazione sono fisici. Noi pensiamo spesso che il cinema per essere ben fatto debba costare fatica, pianificazione, scaturito della negazione dei piaceri di ciò che racconta. Per avere una bella inquadratura di solito ci si annoia, mentre in The Walk si vuole raccontare un momento di spensieratezza, attenzione non come assenza di pensieri, ma il dipanarsi del pensiero mentre si cammina, che è diverso dal pensiero statico e arrovellato di quando si è seduti a un tavolo. Preferisco vivere davvero questa spensieratezza in movimento mentre giro, perché mi sembra un modo più efficace per trasmetterla a chi guarda. Far coincidere l’atto del filmare con ciò che viene filmato. È come mettere in moto il corpo dello spettatore. Ho sempre l’impressione che il cinema trasmetta l’idea che la nostra vita fuori dalla sala sia priva di piaceri che invece vediamo condensati sullo schermo, io invece cerco di trasmettere qualcosa della normalità: uscire dalla sala e avere la sensazione che nella nostra vita abbiamo tutto. Cinema come gesto di riappropriazione del nostro potere.
I tuoi film hanno una circuitazione nei festival di cinema indipendente e sperimentale di un certo spessore. Visto l’andamento delle sale, i festival sembrano restare un punto di forza per scoprire nuove visioni. Considerato che The Walk ha vinto il Premio Speciale nella sezione Gabbiano in un’edizione nuova e restaurata del Bellaria Film Festival, volevo capire l’importanza dei festival per un cineasta come te.
Sono tutto. È la vita più bella dei film. I festival sono riserve protette perché nel mondo fuori questo cinema non raccoglie abbastanza interesse e consenso. Anche tra i festival ho visto un declino degli spazi realmente dedicati a prodotti indipendenti più sperimentali e invece una formattazione sempre maggiore a vincoli politici. Poi ci sono le sorprese come questa edizione di Bellaria, che torna allo spirito e alla pulsazione che aveva in passato.
Nei Microgrammi, opere di straordinaria importanza politica e visiva, Robert Walser riempiva tutti gli spazi possibili con la scrittura su qualsiasi tipo di supporto, dai fazzoletti a pezzi di carta minuscoli. Un ragionamento sul supporto che può essere collegato all’uso della pellicola in The Walk.
I Microgrammi sono scritti da Walser nell’ultima parte della sua vita, quando era rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Sono un punto di arrivo nella sua carriera di scrittore e sono dettati dalla necessità: in ospedale gli veniva impedito di scrivere e allora si serviva di qualsiasi supporto a disposizione. Rompendo la regola ha trovato la sua libertà espressiva. Questi microgrammi sono opere di un’importanza visiva che è persino autonoma rispetto al contenuto degli scritti. Ed è vero, con la pellicola viene naturale questo riempire ogni spazio possibile sul supporto che si impressiona. Noi abbiamo girato in super 16mm a formato pieno, la cinepresa ha una finestra dove si imprime in un formato rettangolare, nel momento in cui il film viene post prodotto potevamo farlo diventare più allungato, invece abbiamo pensato di usare il formato pieno anche se così si sarebbe vista la polvere o il pelo sul bordo del fotogramma. Abbiamo il massimo uso del supporto, così come Walser usava ogni pezzetto di carta riempiendolo completamente.