Ormai etichettato come declinante autore manierista e ricordato in eterno per la cosiddetta “trilogia della vendetta”, il sudcoreano Park Chan-wook stupisce fan e detrattori con un inatteso noir classico, concentrato sull’intesa tra un detective insonne e una pericolosa femme fatale. Una filmografia di eccessi e barocchismi, tendente al grand guignol, trova in Decision to Leave un brusco arresto: un film sobrio e asciutto nella messa in scena, profondamente hitchcockiano, che guarda consapevolmente ai classici del genere ma li veste con i panni contemporanei di un uomo oggettivizzato e passivo, disarmato di fronte all’iniziativa di lei, e di dispositivi elettronici – chat, geolocalizzazione e tracciamento degli spostamenti – che agevolano la liaison dei due amanti. Lo stile, impeccabile e ricco di virtuosismi, è questa volta al servizio di una storia senza tempo sull’insondabilità della passione e su come questa possa sgorgare nei terreni più impervi.
Romantico ed elegante, indubbiamente tra i titoli fondamentali sin qui visti, il film di Park Chan-wook però opera anche a un altro livello, più teorico. Il coreano aggiorna infatti il codice del melodramma alle regole della contemporaneità e all’atmosfera di post-verità tipica della contemporaneità, inabissando gli attori del gioco amoroso in una messa in scena labirintica e costantemente indecifrabile (secondo lo stile proprio del regista, sempre attento a disordinare il gioco delle sembianze e delle aspettative), in cui il vero e il falso non solo si confondono ma sono strutturalmente indecidibili, irriconoscibili. Che valore hanno le immagini in un contesto sociale che delle immagini non si può più fidare? Se il linguaggio non è più un medium trasparente – come sembra evidente se si ascoltano le continue sovrapposizioni linguistiche tra cinese e coreano nel film – quali sono le responsabilità degli interpreti di chi lo parlano? Il film così doppia e riarticola La donna che visse due volte perché scopre nell’impossibilità di comprendere un’immagine che sta davanti a sé la massima vertigine del presente.
Grande attenzione anche per il nuovo film di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, coppia di autori belgi da grande produzione internazionale, già ricambiati dal plauso di pubblico e critica in passato, e qui alle prese con una curiosa deviazione di percorso: quella di una storia, e di una produzione, orientata verso l’Italia. Pietro, bambino torinese in vacanza in un paesino della Valle d’Aosta, fa amicizia con un suo coetaneo, Bruno. Anche se la famiglia di Pietro si offre di ospitare Bruno per farlo studiare in città, il ragazzo crescerà in montagna per volere del padre. Ma i due amici si incontreranno di nuovo da adulti, prima che Pietro inizi poi a viaggiare nel mondo. La trasposizione di Le otto montagne del Premio Strega Paolo Cognetti si nutre di felici intuizioni. La prima è che per raccontare sullo schermo il paesaggio alpino, il formato possa non essere quello panoramico da “grande cinema”, ma che si possa recuperare la lezione dello storico documentario di montagna, girato in formato ristretto. La seconda è puntare su due attori tra i più in luce ora in Italia, Luca Marinelli e Alessandro Borghi, sfidandoli ad affrontare un contesto naturale e geografico ben diverso da quelli in cui li abbiamo conosciuti. Il risultato è un’opera che rielabora il tema dell’identità e di ciò che orma quest’ultima, calandolo perfettamente nella natura rappresentata, quelle montagne che Pietro ama, ma da cui sa di poter sempre ripartire, e che invece trattengono Bruno dalla scoperta del mondo al di fuori.