Il Concorso della 75esima edizione del Festival di Cannes ha preso avvio all’insegna dell’autobiografia, con Armageddon Time di James Gray, amato autore indipendente americano ridisceso sulla terra e nella concretezza storica degli anni Ottanta (c’è persino Fred Trump, promotore immobiliare padre di Donald), dopo il viaggio spaziale, protagonista Brad Pitt, di Ad Astra. Ambientato nel Queens, Armageddon Time è un delicato romanzo di formazione che vede al centro del racconto un ragazzino alle prese con i primi turbamenti adolescenziali, le prime incomprensioni verso un mondo che reitera gli odi razziali – ieri le persecuzioni contro gli ebrei, nel presente contro gli afroamericani – e l’emergere di una profonda vocazione artistica stimolata dalla visione dei quadri di Kandinskij. Proprio la scoperta dell’astrattismo, e di un modo altro di relazionarsi alla vita, sarà per il protagonista la chiave per riconciliarsi con una realtà troppo contraddittoria e complessa, e per trovare il proprio posto nel mondo.
Con Armageddon Time, Gray si conferma un regista fuori dal tempo e dalle logiche del cinema corrente: non tanto per una posizione passatista o per un atteggiamento snob nei confronti degli sviluppi del linguaggio, ma per puro e semplice romanticismo. Il suo cinema, sempre comunque lucido nel tenere a mente lo stato dell’arte e dei discorsi, è ancora un cinema “innamorato del gesto”, tutto preso dalla consapevolezza di una perdita – il cinema americano che “c’era una volta in America”, quello che lui ha cercato nel gangster, nel melodramma e nel cinema d’avventura – che non si può risolvere ma solo recuperare in astrazione, in labile concetto – investendo sul fallimento certo con la fiducia di chi gioca contro il destino solo per smentire le scommesse contrarie. In questo senso Gray pare già uno dei grandi vecchi, più vicino, per consapevolezza e misura, a uno Spielberg, che ai coetanei americani: come altro spiegare la coincidenza che li vede assieme nella messa in scena delle loro personalissime memorie, proprio mentre la coscienza storica del cinema americano lentamente sbiadisce?
Parte da una simile presa di distanza dalla bestialità umana anche il nostro primo colpo di fulmine del concorso, EO di Jerzy Skolimowski. L’autore polacco si conferma uno sguardo imprendibile e imprevedibile, scegliendo stavolta di rimettere in scena il film che più di ogni altro lo ha commosso: Au hazard Balthasar di Robert Bresson. Il punto di vista di un asino, lacerato nell’animo dal passaggio da un padrone all’altro, diviene la prospettiva dolorosa, allucinatoria e imperfetta da cui osservare la miseria umana, per rovesciare la chiusura e il narcisismo contemporanei in un movimento di estroflessione, di scoperta dell’altro, liberissimo e coraggioso. Skolimowski mescola registri e visioni, incubi e scenette comiche, mélo e pura soggettività creando un oggetto commovente e catartico, con un’audacia che vorremmo ritrovare anche negli autori di nuova generazione (e nei prossimi film).