In Nostalgia, Mario Martone costruisce il ritratto di Felice, un uomo che, diventato imprenditore in Egitto, torna dopo quarant’anni nella natia Napoli. Qui riemerge il ricordo del suo amico fraterno Oreste, che ha invece intrapreso la strada della criminalità. Paradossalmente, più il pericolo e l’inquietudine prendono corpo, più Felice è determinato a restare nella sua città natale. Dall’omonimo romanzo di Ermanno Rea, Martone trae un soggetto che si inserisce perfettamente nella sua poetica, grazie a un personaggio che, come i protagonisti di Morte di un matematico napoletano e L’amore molesto, si perde tra i vicoli di Napoli, le sue stratificazioni, le catacombe, gli angoli bui e i gli improvvisi squarci di bellezza. Favino si destreggia tra lingue che non sono la sua – l’arabo e il napoletano – dando vita a una figura fin troppo limpida e lineare per risultare una guida credibile in un viaggio tra vita, morte e terribili rimossi. La crisi di chi ama e odia la propria terra d’origine si avverte semmai con forza nel personaggio di don Luigi, prete che combatte ogni giorno la camorra con disincanto e risolutezza. L’incarnazione perfetta di una città che, pur avendo rinunciato a sognare, è determinata a non arrendersi.
C’è chi ha chiamato immediatamente in causa Buñuel, alla prima di Triangle of Sadness, con cui lo svedese Ruben Östlund potrebbe aggiudicarsi la sua seconda Palma d’Oro. Perché in questa storia di modelli, influencer e neoricchi spiaggiati su un’isola deserta si ritrova tutto lo spirito provocatorio dell’autore di L’angelo sterminatore, a partire dal suo sguardo corrosivo sui privilegiati. Certo il discorso di Östlund non suona nuovo e non si nega un certo didascalismo: il suo cinismo spesso non è usato come un motore dialettico, non è il punto di partenza di un cinema che cerca le prove delle proprie teorie sociologiche; piuttosto è un a priori, un postulato sociale a cui tutto deve fare capo e che quindi costringe a fare tornare i conti della propria messa in scena, costringendo gli spettatori non tanto a essere disturbati (ben venga il disturbo e lo smottamento) ma a restare in ostaggio di immagini autoimmuni. Eppure ci sono almeno un paio di sequenze che mostrano un talento raro nel cogliere in modo originale la deriva della società contemporanea: mentre l’inizio del film, ad esempio, con la sfilata di modelli uomini interrogati sui loro diritti calpestati, disorienta le aspettative e le riordina secondo un nuovo punto di vista, la cena tra due celebrità social in cui il pagamento del conto innesca una diatriba sulla parità di genere trova un tono comico in una logica del ribaltamento e dell’assurdo che istanzia il film di Östlund al livello di un esperimento mentale sugli abissi sociali che si sprigionano sotto le superfici ammiccanti sempre più pervasive. È proprio questo abisso senza fondo il vero oggetto del film, il rimosso di un’epoca retta su immagini superficiali e banali slogan.