Le immagini non sono mai innocenti. Non si posizionano per caso, non sono oggetti inerti, sono frutto di un modo di pensare, di una postura simbolica prodotta dalle pressioni culturali. La camera fissa adottata in modo radicalmente intransigente da Valentyn Vasyanovych in Reflection per rappresentare gli orrori della Guerra del Donbass è proprio una postura sintomatica che dice moltissimo sulla considerazione che questo regista ha dello sguardo e del cinema in questo momento (si tratta in realtà ormai quasi di un decennio) di dolore e di paura. Perché Vasyanovych filma l’orrore con il dispositivo della fissità? La storia che mette in scena è quella di Serhiy, un chirurgo che decide di andare al fronte, attraversando una catabasi nelle peggiori strutture di tortura, per poi tornare nel luogo domestico senza aver elaborato lo stress traumatico. Il regista ucraino imposta questa storia per quadri fissi che trasformano le sequenze in blocchi autonomi, irrelati tra loro al punto da demoralizzare qualsiasi idea di drammaturgia, anche quella tenuta lievemente viva dalla struttura circolare di andata e ritorno con cui il protagonista si muove (il cerchio è in fondo movimento sul posto, movimento illusorio). Il suo obiettivo è quello di sostenere di converso il primato della sensazione nell’esperienza di quanto si vede sullo schermo: costringendo il tempo non a una distensione orizzontale puntata verso il continuo di una storia ma a una compressione verticale che trasforma il visibile in sensibile, l’isolamento del momento potenzialmente narrativo ne esalta la qualità sensoriale.
Sembra avvenire questo quando Vasyanovych incapsula con la camera fissa il protagonista detenuto in una cella e sensibilizza l’immagine della sua detenzione dilatando al di là di ogni ragione il tempo con cui un rubinetto sgocciola: il piano sequenza in camera fissa di Reflection vuole incordare il tempo alla vibrazione del sensibile attraverso una messa in superficie del mondo rappresentato. E in effetti, oltre alla sequenza del rubinetto, tutto il film è giocato sull’annullamento prospettico della profondità di campo, o meglio, sulla superficializzazione della profondità di campo: si pensi alla scena di apertura in cui i personaggi in primo piano (il protagonista, la sua ex moglie e il nuovo compago) sono separati da quelli in secondo piano (la figlia del protagonista che gioca a paintball) da un vetro che da veicolo di tridimensionalità si fa presto solo segno della bidimensione (quando degli inservienti lavano la tempera prodotta dai proiettili colorati). Vasyanovych sceglie quindi di formalizzare oltre ogni ragionevole dubbio l’immagine, che è spesso tragica, perché crede nella sensazione come unica forma di accesso al dolore indicibile? Se così fosse questa forma fissa in grado di fare emergere il sensoriale sarebbe quanto di più etico avrebbe prodotto la grammatica cinematografica interessata a rappresentare il tragico della guerra: non c’è nessuna forma più rispettosa della fragile evocazione di una contingente e particolare sensazione per mettere in scena il dolore altrui, perché non c’è possibilità di accedere all’altro tramite una storia che ne ipotizzi, magari cercando di universalizzare, una verità assoluta. La sensazione è a tutti gli effetti (e non è un caso che il grande pittore del dolore, Francis Bacon, sia stato il grande pittore della sensazione) la via di rappresentazione del ritegno, quella cercata da chi, soffrendo per l’annullamento in cui tutte le cose vanno incontro, tiene viva la traccia lasciata dall’assenza.
Ma c’è un problema. La camera fissa di Reflection produce, nel tentativo di fare emergere a tutti i costi la sensazione, una mossa anti-cinematografica che annulla il senso del cinema. Se si torna alla modalità con cui il quadro fisso è composto ci si può chiedere a che sguardo corrispondi, e si potrebbe rispondere che corrisponde non al protagonista, non a un altro personaggio, ma esattamente alla prospettiva frontale e centralizzata di un ideale spettatore extra diegetico. La postura di questa camera fissa sembra proprio essere pensata per attivare in chi guarda l’inconsapevole tensione spettatoriale che contraddistingue l’uomo occidentale da quasi tre secoli. Prima del 1700 non esisteva nessun concetto di sguardo spettatoriale, perché l’unico agente considerato dotato della possibilità di vedere era Dio; è con il terremoto di Lisbona che le cose cambiano; tra le rovine rappresentate nelle incisioni, diffuse in tutta Europa per comunicare l’evento, compaiono spettatori che giustificano la rappresentazione della tragedia – l’equazione del moderno triangola l’esperienza della calamità, la nascita dello spettatore e la spettacolarizzazione del dolore: non esiste spettacolo senza spettatore, non esiste spettatore senza spettacolo. In questa corrispondenza virtuale tra presunta prospettiva spettatoriale e inquadratura, lo spettatore si riconosce attivo e subito anche inerte di fronte a ciò che vede: non può né aiutare, né risolvere la situazione, può solo assistere voyeuristicamente, congelato nel suo punto di vista. La vista è così considerata veicolo di spettatorialità e complice di una spettacolarità distante dalla comprensione sensoriale degli eventi – forse in uno sberleffo al pubblico da festival occidentale per cui questo film è pensato: la vista non è senso per comprendere il mondo o il dolore, perché guardando non si sa nulla. Questo risultato sottende la concezione per cui il senso analitico della vista sarebbe gerarchicamente debole rispetto agli altri sensi che elaborano la realtà attraverso una sintesi – si spiega così l’importanza del sonoro nel film rispetto al visivo, come si vede nella scena sopra citata (in cui il dolore del protagonista non lo vediamo, ma sentiamo sgocciolare via la sua vita) o nel programmatico finale, in cui un esercizio di riconoscimento per elaborare lo stress post traumatico si compie tramite tutti i sensi che nonsono la vista. Proprio il finale suggerisce che la riconciliazione dell’umano con l’umano dopo l’alienazione della guerra si ottiene deludendo la vista e fidandosi degli altri sensi non vedenti, tant’è che la profondità di campo analiticamente governabile si squaglia piano piano in un tutt’uno bidimensionale sinteticamente percepibile; la superficializzazione con cui tutto il film lavora è questo in fondo, riduzione della profondità a sintesi esperibile.
Se si segue fino in fondo questo ragionamento di percettologia spiccia, per cui la profondità risulta solo un’illusione prospettica, virtualità presto ricondotta a corpo, si incontra la scena che dà il titolo al film e ne illustra l’ideologia metafisica di fondo. Un uccello si schianta sul vetro dell’appartamento del protagonista: inquietata dalla traccia lasciata sul vetro dal corpo del volatile, la figlia cerca consolazione nel padre; la morte dell’uccello le ricorda la scomparsa del nuovo compagno di sua madre (dato per disperso ma in realtà morto al fronte, ucciso per pietà, per così dire, proprio da Serhiy, senza che nessuno lo sappia). Il padre cerca di confortarla spiegandole che per esempio nella religione buddista si ritiene che il corpo sia l’inutile prigione da cui liberare l’anima, ma la bambina risponde che non crede a questa illusione dell’anima. Nella religione cristiana ortodossa (gli ucraini sono per la maggior parte ortodossi), infatti il corpo non è certo prigione, anzi, è irrinunciabile parte, assieme all’anima, tramite cui l’essere umano si irraggia di grazia. Di più, il corpo è “palazzo dell’anima”, organo di superamento (un superamento figlio della commistione tra filosofia greca e teologia bizantina) della frattura tra corpo anima e spirito, propria di un certo cristianesimo occidentale. Non è un caso che secondo Serhiy l’uccello si sia schiantato perché ha scambiato il riflesso del vetro per il cielo: è l’accettazione integrale della dimensione corporea superficiale, meramente materica, e non la negazione della materia o peggio la considerazione della materia come mero riflesso, che permette di accedere alla grazia divina – e l’ortodossia cristiana è legatissima al segno sindonico, che riconosce come promessa di risurrezione della carne. La forma di Reflection non crede insomma a questa illusione virtuale della prospettiva, e infatti la riconsidera come momento di un’estensione superficiale; di conseguenza non crede nel senso (propriamente occidentale) con cui si fa esperienza di prospettiva, la vista.
Perché questo snobismo sarebbe anti-cinematografico? Vasyanovych non riconosce nella vista la possibilità di essere un veicolo sinestetico, cioè di essere porta per gli altri sensi. Invece il cinema sembra essere quel tipo di occasione percettiva in cui i sensi in toto vengono innervati proprio ruotando intorno a quel perno che è lo sguardo, continuamente disorientato dal centro prospettico che pensa di possedere. Il montaggio è forse esattamente questo attentato alla centralità prospettica, vertiginosa apertura alla natura pluridimensionale della vista, che è poi anche testimonianza della traccia di movimento nel tempo e quindi della sensazione che si prova nel continuo spostamento all’interno dello spazio – perché la sensazione è davvero la porta per un’impossibile rappresentazione rispettosa dell’indicibile. Non deve passare però che l’estetica prodotta dalla teologia ortodossa sia anti-cinematografica, anzi: è la camera fissa di Reflection che, cercando di raggiungere gli stessi risultati dell’icona, ottiene tutt’altra cosa. Il pensiero estetico dell’icona, infatti, non ignora la complessità dello sguardo umano e non opera indebite riduzioni monoculari; la sua “prospettiva rovesciata” contraddice qualsiasi rigidità artificiale per restituire la visione di un punto di vista che non è mai univoco ma è sempre vivo e in movimento. Curioso che nel film di Vasyanovych il tentativo di evadere dalla profondità di campo per sintetizzarla in sensazione abbia rinchiuso lo sguardo in un regime spettatoriale univoco che risulta artificiale e solo parzialmente corrispondente alla complessità dei fatti. Questo dice forse qualcosa sul limite estetico, e quindi etico, della camera fissa, ma questo qualcosa eccede di molto la dimensione di questo scritto.