Di questi tempi, un festival con una collocazione di calendario a cavallo tra gennaio e febbraio non ha vita facile. Vista la prossimità al “solito” picco natalizio dei contagi, anche l’edizione 2022 ha dovuto annunciare, a poche settimane dall’inizio previsto, la necessità di ripiegare sull’online. Ma anche davanti al piccolo schermo la sensazione è stata netta: per orientarsi nel selvaggiamente diseguale panorama festivaliero internazionale, l’International Film Festival Rotterdam continua a essere un imprescindibile faro (volendo assecondare la metafora “portuale” a cui dall’anno scorso la manifestazione ha voluto ulteriormente legare la propria identità, anche attraverso la nuova sezione “Harbour”).
Lo si vede da scelte curatoriali particolarmente felici, azzeccate, puntuali. Una fra tutte, il “Focus” retrospettivo a Qiu Jiongjiong. Il suo A New Old Play, premio speciale della giuria a Locarno, è tra i film che più hanno intrigato, e in molti casi incantato, gli addetti ai lavori nel corso del 2021. Ma non è una meteora. Non viene dal nulla. Viene da un percorso lungo anni, parallelo a un’apprezzata carriera da artista figurativo. Giustissimo, dunque, che l’IFFR abbia fatto chiarezza su ciò che ha condotto a A New Old Play, con sei altre opere firmate da Qiu negli ultimi quindici anni.
Già da Moon Palace (2007), la direzione era tracciata: mettere insieme un apparato formale con cui rapportarsi alla parola degli altri, la quale ha chiaramente precedenza assoluta. Qiu è uno che ascolterebbe parlare per ore gli individui, tutti in un modo o nell’altro eccezionali, attorno a cui costruisce i propri documentari. Apposti al loro eloquio in senso enigmaticamente associativo (i piccioni alternati agli episodi autobiografici larger than life proferiti dal poliziotto protagonista di A Portrait of Mr. Huang, 2009), frequenti fraseggi di montaggio che appaiono come una sorta di contraccolpo istintivo a questa affascinata passività ricettiva. La quadra tra queste due componenti non arriva subito. O meglio, in un certo senso sì, arriva subito, già nel 2008, con il prodigioso Ode to Joy: da un omaggio al nonno di Qiu, leggendario clown dell’opera del Sichuan che sarà al centro di A New Old Play, parte un sistema di ramificazioni concettuali la cui densità è brillantemente controbilanciata e alleggerita da un superiore senso del ritmo, taglio dopo taglio. A questo fulmine a ciel sereno, però, faranno seguito documentari che denoteranno tutti, pur in varia misura, un carattere ancora in parte acerbo; anche quando i materiali sono ricchissimi (il ventesimo secolo cinese, filtrato attraverso le esperienze personali della nonna che si autoracconta in My Mother’s Rhapsody, 2011), essi non vengono perfettamente dominati, e la loro selezione e organizzazione presenta ancora ampi margini di miglioramento. Cominciano tuttavia a comparire le tracce di un notevole senso della struttura: se Madame (2010) non riesce a non essere altrettanto prolisso della cantante transessuale su cui è incentrato, le performance canore che inframmezzano i suoi vulcanici monologhi (incalzati dalle domande di Qiu) rivelano efficacemente una vena malinconica che è la verità, flagrante, delle mille maschere esibite raccontandosi davanti all’obbiettivo.
La quadra arriverà solo con il salvifico approdo alla finzione: Mr. Zhang Believes (2015). Rimangono pezzi di interviste al protagonista, vecchio militante della gioventù comunista poi incarcerato per anni perché sospettato ingiustamente di flirtare coi reazionari. Ma per il resto delle sue due ore e un quarto, il film colleziona ricostruzioni astrattamente teatrali, di cui abbiamo una visione mai frontale, mai di insieme ma sempre parziale, sempre interna, strappata da una cinepresa in malfermo movimento di avanscoperta tra i pochissimi elementi scenici a cui è ridotto il set, e a cui il bianco e nero conferisce un supplemento ulteriore di astrazione. “Andare a tentoni” non è più l’affettuosamente confusa reazione innanzi al debordare del materiale umano di Moon Palace (documentario sulla famiglia del regista, sul loro gioviale amore per l’alcool, per le relazioni amicali, e per la plurisecolare tradizione dell’opera del Sichuan): è la cifra precisa del modo in cui l’essere umano abita, fragilmente, le convulsioni della Storia. Al riparo da esse sembra esserci soltanto la famiglia, centrale qui come nel resto della filmografia di Qiu: ma la famiglia è un “porto sicuro” tanto più tangibile quanto più destinato a rimanere un mero miraggio. Anche lei, va e viene, come tutto il resto, opacamente intrecciata alle sfere che premono da tutt’intorno: la Storia, la politica, lo Stato, l’arte… e perfino l’oltretomba.
È sulla via dell’oltretomba, infatti, che Qiu Fu ripercorre la vita passata in A New Old Play. Nel dare forma ai ricordi postumi del nonno, esimio esponente dell’opera del Sichuan morto decenni prima, Qiu Jiongjiong parte del presupposto che non è vero che il vissuto si appiattisce nella memoria. Si appiattisce per un verso, ma per l’altro, nella memoria, il vissuto prende corpo. Un corpo immateriale, diverso dai nostri, ma pur sempre un corpo. In questo film che dunque si conclude coerentemente con un bassorilievo, e che intrattiene un dialogo serratissimo con secoli di tradizione figurativa (oltre che teatrale) cinese, la bidimensionalità spinta dei fondali parateatrali e della mise en scène in generale viene costantemente perturbata e ridirezionata verso le tre dimensioni: stratificando le superfici, muovendo la macchina, cambiando angolazione per costruire una volumetria a set comunque sempre al limite dell’artificio (a cominciare dalla palette cromatica gagliardamente semplificata). Ma la vera dimensione supplementare, irriducibile a qualunque canone figurativo, è il calore umano, collante di ogni società piccola e grande, e riprodotto da un tono che Qiu è attentissimo a creare, mantenere, modulare; un tono leggero e pronto a sdrammatizzare anche ciò che non si lascia verosimilmente sdrammatizzare (dopotutto, è un sogno post-mortem, non la realtà), come la ricerca di larve negli escrementi per non morire di fame. Un calore che, ancora una volta, ribadisce la famiglia come un miraggio, come irreperibile proprio perché potenzialmente dappertutto: tutto è o potrebbe essere famiglia, anche quando la società si militarizza o si burocratizza spietatamente. E come in Mr. Zhang Believes Qiu è affascinato dalle tende, elemento-chiave dell’intimità domestica ma anche segno inquietante che non c’è scampo dal teatro e dalla sua finzione, in A New Old Play Qiu dà particolare importanza visiva ai mattoni rossi del palazzo in cui nonno Fu andò ad abitare dopo decenni di promiscuità nella compagnia teatrale che lo formò come attore. Soglia tra pubblico e privato che, manco a dirlo, si confermerà labile, porosa, improbabile. Ideologicamente incollocabile (anche la Cina comunista, criticata per certi versi, per altri è vista come la logica conseguenza della società e dell’arte precedenti, e non si esita a riconoscere il progresso materiale che ha portato), A New Old Play ci ribadisce che spesso si è voluto celebrare troppo presto il funerale dell’umanità; lo fa non da ultima l’arte contemporanea di cui Qiu è membro di spicco, un’arte da tempo sbilanciata su una fantasmagorica archeologia dell’umano, a cominciare dagli splendidi acquerelli dello stesso Qiu. Le ideologie, intanto, passano, ma l’umanità è ancora lì, in un mondo che non è mai una casa, perché non c’è casa che non sia, in fondo, un miraggio, una confortevole finzione teatrale.
Anche nelle altre sezioni di un festival che storicamente ha sempre puntato molto sulla mappatura dello stato dell’arte cinematografica al di fuori dell’occidente, è dall’Asia che sono arrivate un numero significativo di perle. Chavittu (degli indiani Sajas Rahman e Shinos Rahman) parte seguendo innocentemente una piccola compagnia di teatro musical-tradizionale in trasferta; all’inizio sembra interessato solo alla costruzione paziente di pattern visivi e ritmici che assecondino e restituiscano la tessitura materiale di quella tradizione, poi però il discorso passa, piano piano, impercettibilmente ma inesorabilmente, ad intrecciarsi con un conflitto di classe (o di casta) che si tocca con mano perfino in uno stato notoriamente progressivo come il Kerala. Che il saper-fare artigianale (incluso il lavorio alla base dell’arte popolare) e l’emancipazione socio-politica siano non due facce della stessa medaglia, ma addirittura una sola e la stessa cosa? Amrus Natalsya who Recreates the Dispossessed in Twilight (Mahardhika Yudha, Indonesia) è invece un’ardita, illuminante e illuminista sfida pedagogica, pienamente vinta. L’eponimo pittore, vittima come tanti altri della repressione anticomunista dopo il colpo di stato del 1965, fu autore prima e dopo la sua incarcerazione di una stupefacente produzione artistica, che riesce nel miracolo di tenere in equilibrio un rigore formale orgogliosamente modernista e una “gramsciana” vicinanza allo specifico della condizione delle classi subalterne. Come queste esigenze apparentemente contraddittorie potessero fondersi nel lavoro di un’intera esistenza votato all’emancipazione (inseparabilmente) sociale ed artistica, risulta incomprensibile senza addentrarsi in un fitto background contestuale di carattere storico, estetico, politico e quant’altro. Le tre ore e passa impiegate da Mahardhika Yudha per dipanare questa matassa intellettuale interpellando amici, colleghi, studiosi etc. ci vogliono tutte: allentare il ritmo, concedere a ogni frammento di intervista un tempo sensibilmente maggiore di quello, superficialmente accelerato, della maggior parte dei documentari “a teste parlanti”, è indispensabile per far entrare lo spettatore in una densa materia concettuale, ricca di nessi e rimandi interni. Così, lo spettatore è ripagato con un panorama sfaccettato ma esaustivo, la cui ricostruzione viene solo raramente e con somma discrezione sospesa per avvicinarsi a ciò che rimane di un Natalsya ormai anziano, autentico monumento di un’arte al contempo impegnata e “di ricerca” ancora troppo viva per essere placidamente musealizzata, e che non possiamo permetterci di credere estinta.
È a un’arte di questo genere che guarda, del resto, EAMI di Paz Encina, vincitrice della “Tiger Competition” di quest’anno. Ed è un’arte che viene, giustamente, convertita per davvero in cinema anziché essere musealizzata. Nello sviluppare una rêverie finzionale a due voci che prende spunto dalla mitologia degli indigeni Ayoreo-Totobiegosode (Paraguay), cacciati dalle loro terre per far spazio al progresso, Encina non si tiene lontana soltanto dal solito babau della teleologia lineare, ma anche da quello, ugualmente insidioso, dell’antilinearità programmatica delle gallerie d’arte. Se il suo film è un seguito di tableau cromaticamente incisivi, audaci tanto con la luce quanto col buio, turbati ogni volta solo da un breve miraggio di azione, d’altro canto una terza via tra stasi e movimento (definizione di cosa sia il cinema abusata ma sempre affidabile) viene ritrovata con successo nella doppia spirale delle immagini e delle parole, tanto le une quanto le altre prese nella ricorsività dinamica di elementi che non cessano di ripetersi. Più il gioco di sdoppiamenti si fa vertiginoso, più lo scorrere del film si fa fluido – anche perché Encina è attentissima alle transizioni tra le parti che si sdoppiano (prima fra tutte il mix sonoro, indispensabile cuscinetto tra il flusso delle parole e quello delle immagini). E il tempo così ricostruito ci suggerisce che la caduta dal cielo, il cui nome è “modernità”, ha luogo da sempre, continuerà ad averlo per sempre, e non avrà mai luogo: tutto insieme.
Più sofisticato è il gioco con l’arte contemporanea dell’israeliano Roee Rosen, perché prende in mezzo anche TV e nuovi media. Kafka for Kids comincia con un variopinto programma per bambini tipo L’albero azzurro, completo di mobili ed altri oggetti scenografici inanimati interpretati da esseri umani (!), in cui un occhialuto, paciosamente rassicurante nonno in vestaglia legge La metamorfosi di Kafka a un’adulta vestita da bambina e con mossette da bambina – prima che la medesima adulta venga mostrata, in quello che potrebbe essere un filmato “leaked” da YouTube, nei panni di un avvocato di minorenni palestinesi parlare a un convegno sulla Legge nei territori occupati. La Legge, del resto, è al centro dell’universo kafkiano: ciò che la Legge sospende per poter vigere torna sempre ad ossessionarla. La Legge è piena di eccezioni, e si fonda su di esse: a cominciare dallo status speciale attribuito all’infanzia. Tutto Kafka è un arzigogolato sistema di fughe, variazioni e digressioni da quell’autosospendersi che è il nucleo centrale della Legge, senza potersene tuttavia mai dipartire di un millimetro perché la scrittura si porta ovunque quel nucleo con sé. Ma l’infanzia non funziona forse in modo analogo? Non considera essa ogni istante come una fuga dal precedente, una digressione in avanscoperta da bilanciare con l’esperienza, sempre rinnovata (mettendosi le cose in bocca, prorompendo in vocalità di cui essere emettitore e destinatario, indulgendo in propriocezioni varie), che la coscienza a cui tutto dovrebbe ricondursi è un falso centro? Kafka for Kids dunque sorprende non tanto per l’ampiezza e l’inventiva delle digressioni trovate da Rosen su questi temi, né per l’evidenza tanto ovvia quanto sottovalutata che saremo sempre bambini e saremo sempre kafkiani perché non possiamo liberarci né della legge né di ciò che essa sospende, e perché Kafka e l’infanzia si specchiano infinitamente a vicenda. Sorprende piuttosto per come questo infinito specchiarsi venga installato, coerentemente con queste premesse, in un terzo spazio che non è né artistico né televisivo, e dunque perfettamente cinematografico. Il cinismo dell’arte contemporanea si annulla insieme a quello della televisione, ma solo affinché in quella terza cosa che ne viene fuori noi finiamo per crederci veramente, trascinati da un’energia ludica (intermittentemente minacciata da un ineliminabile sospetto di serietà) che appartiene tanto all’età infantile che a quella adulta, e al cospetto della quale ci viene ricordato ciò di cui troppo spesso ci dimentichiamo: la linea tra infanzia ed età adulta è altrettanto mobile e incerta di quella tra la Legge e ciò che essa sospende.
Né Encina né Rosen sono filmmaker di primo pelo: se il secondo è artista di fama internazionale da ormai molti anni, Hamaca Paraguaya (esordio della prima) fu presentato a Cannes in Un Certain Regard già sedici anni fa. Il che la dice lunga sulla direzione che l’IFFR sta provando a prendere: dopo aver dimostrato, nel 2021, di essere capacissimo di individuare i talenti in erba da promuovere a livello internazionale, ora è il momento di dare solidità al concorso interpretando in maniera, diciamo così, “elastica” la regola che limita i partecipanti al concorso a chi sia al primo o massimo secondo lungometraggio di finzione. Tra i contendenti figurava del resto perfino il compianto Eugenio Polgovsky, scomparso all’improvviso nel 2017 dopo essersi lentamente, discretamente ma inesorabilmente imposto, negli anni, come uno dei più interessanti artigiani del “non-fiction”. Malintzin 17 è un piuttosto ben riuscito montaggio (della sorella Mara) di materiale da lui girato dal balcone di casa sua insieme alla figlia: un’agile ora di cinema puro, a cui è sufficiente un filo della luce, un piccione e qualche passante sul marciapiede per costruire architetture associative semplici ma ritmicamente azzeccate. A rigore, nemmeno Juichiro Yamasaki è uno sconosciuto, avendo già conseguito una discreta eco a Rotterdam col suo esordio di una decina di anni fa. In effetti, il suo Yamabuki conferma che sa il fatto suo: classico meccanismo a orologeria che compensa la rigidità con cui tira le fila della drammaturgia con uno sguardo abbastanza aperto alla quotidianità e al descrittivo, anche per via di un uso mirato, e figurativamente saldo, del 16mm.
Naturalmente, c’è spazio anche per prove più acerbe, più o meno riuscite. Tra le meno c’è il bellico Achrome (Maria Ignatenko), le cui leziosità pittoriche useranno anche benissimo le risorse digitali, ma né quelle, né le brume spiritualiste, né la contorta struttura narrativa bastano a nascondere uno storyboarding ad effetto ben poco raffinato. Assai meno vana, in quel riuscito esercizio di “letterarietà portoghese” (produce Paulo Branco) che è A criança, meticolosamente messo in scena da Marguerite de Hillerin e Félix Dutilloy-Liégeois, la cura evidente per l’orchestrazione di recitazione, ambienti naturali, luci, découpage etc.; d’altro canto, tutta questa ammirevole cura per il dettaglio e per il singolo momento non è corrisposta da una visione d’insieme altrettanto forte dell’estetica dell’opera originaria. Laddove il suo autore (Kleist, nientemeno) rifiuta le facili sirene della drammaturgia e gioca con personaggi magistralmente indeterminati, de Hillerin e Dutilloy-Liégeois non riescono a non calcare la mano con l’una e gli altri – benché certo per scrupolo calligrafico benintenzionato e più che giustificabile, specie in un esordio.
Tra le scelte curatoriali “felici, azzeccate, puntuali” accennate all’inizio di questo resoconto, ne spicca una particolarmente raffinata: mettere in concorso un “film-dispositivo” che non sia al contempo un “film-truffa” (e ce ne sono tanti in giro, specie realizzati da registi giovani). Un festival che riesce a fare questo, sa bene quello che fa. Si tratta di The Plains (David Easteal), tre ore di inquadratura fissa (salvo brevi inserti su droni svolazzanti) dal posteriore della più che confortevole automobile di un funzionario legale australiano durante il quotidiano ritorno dal lavoro, tra telefonate e confidenze al collega più giovane nel sedile accanto. È stato, in senso buono, il definitivo “romanzo borghese” di questo festival – o meglio, il film che ha confermato come l’ideale borghese coincida con l’ideale romanzesco di una società che perviene all’autocoscienza tramite la razionalità individuale; ideale nato con il “narratore onnisciente”, coscienza sovraindividuale che rendeva possibile l’individualità e addomesticava il mondo in un’unica superficie di senso percorribile e trasformabile in toto dall’azione dell’uomo. The Plains mostra come il trionfo definitivo della borghesia coincida con la propria catastrofe: il narratore onnisciente si spacca tra il volo d’uccello del drone, che vede tutto senza che ci sia più da dire nulla, e un punto di vista individuale intrappolato non nella continuità di senso (un tempo garantita dalla coscienza sovraindividuale del narratore onnisciente), ma nella verità soggiacente a questa continuità, vale a dire l’intermittenza. Il film, affidandosi ad “iraniani” piani-sequenza lunghissimi senza stacchi dall’interno della macchina, rivela il placido flusso che è la vita del protagonista come un infinito stop-and-go: tra i semafori, tra una frase al cellulare e la replica che non sentiamo, tra un canale e l’altro della radio…Orfano del narratore onnisciente, il soggetto abita comodamente la propria coscienza, ma non agisce più (l’astenersi dal prendere decisioni è forse il tema più immediatamente in primo piano del film), e nemmeno riesce più a raccontarsi: non è che il protagonista non sia eloquente su se stesso, il punto essendo piuttosto che non può offrire un ritratto a tutto tondo. E non può farlo perché ognuno dei frammenti in cui si frantuma il proprio infinito auto-racconto è, in sé, immediatamente sufficiente a contenere tutta la sua individualità. Bastano un paio di frasi smozziccate affinché comprendiamo tutto quanto c’è da comprendere, ma le frasi smozzicate continuano, parzialità dopo parzialità, e l’aver capito tutto da subito non ci consola del fatto che il ritratto continua a cercarsi infinitamente, e infinitamente continua a mancare, così come l’uomo borghese cerca all’infinito una compiutezza irraggiungibile perché già, storicamente, compiuta.