L’urna. La cassa. Il chiodo insanguinato. Le ceneri. La sabbia. La roccia. È un film oggettuale, materico, tattile, Leonora addio, parco nei dialoghi, improntato alla scelta che a parlare siano più le cose che le persone, capace, sgombro dal peso predicatorio di pistolotti e intemerate, di affrontare temi ponderosi (la responsabilità morale, lo sradicamento e l’alienazione, le tragedie della Storia) con il piglio divertito e lieve di un saltarello di suggestioni balzano e sorprendente. Tale da colmare gli spettatori di buon umore.
In concorso alla settantaduesima Berlinale, Leonora addio può essere ufficialmente presentato come il ritorno di Paolo Taviani, per la prima volta senza Vittorio, a Luigi Pirandello, dopo le incursioni di Kaos e Tu ridi. Più in generale, come la prosecuzione dell’intenso dialogo d(e)i Taviani con i classici e la loro perenne attualità, si tratti di Tolstoj o Goethe, Shakespeare o Boccaccio. Eppure, a ben guardare, si ricava l’impressione che la chiamata in causa del genio agrigentino sia quanto mai pretestuosa. E ciò fin da un titolo decettorio che evoca Leonora, addio!, la novella che, in debito con Il trovatore, è al centro di Questa sera si recita a soggetto: tutti riferimenti estranei al lungometraggio, se non nella misura in cui disegnano una mappa culturale con la quale orientarsi (o perdersi). In un dittico il cui primo pannello espone la vicenda grottesca delle ceneri del premio Nobel che tre lustri impiegarono a ottenere il riposo previsto dalle disposizioni testamentarie, mentre il secondo adatta l’ultimo racconto dello scrittore, Il chiodo, restituendone lo spirito al prezzo di qualche licenza narrativa, ebbene, in tutto ciò, il regista sembra volersi spingere al di là di Pirandello e della sua poetica, per tessere, nel linguaggio audiovisivo, con una libertà che trascende correttezza e consequenzialità, un’argomentazione molto personale, che poco c’entra con quale che sia modello letterario. Che cosa accomuna, in fondo, la prima parte, con il suo bianco e nero elegantemente contrastato, e la seconda, intrisa di un colore saturo e passionale? Forse l’importanza assegnata a quell’ostinato valore che ha nome fedeltà.
Fedeltà del funzionario del comune di Agrigento alla missione di accompagnare le ceneri da Roma alla Sicilia, misurandosi con le storture del sistema, le superstizioni, i preconcetti, ma anche con un’Italia sfasciata dalla guerra, in una tenzone tra ossequio al dovere e fattori boicottanti che genera effetti di comicità esilarante, in un clima degno della penna di Gogol’. Fedeltà di Bastianeddu nel visitare la tomba di Betty, di cui, bambini entrambi, egli provocò la morte con un chiodo fatale: ossessione imbevuta di pazzia che consente, però, all’uomo di cementificare un legame affettivo che supplisce ai molti a cui era stato sottratto, dovendo emigrare dalla Sicilia negli Stati Uniti. Fedeltà, infine, di Taviani al cinema, testimone imprescindibile degli spasmi e delle sofferenze del Paese, al cui magistero volgersi come a un serbatoio sapienziale e, naturalmente, estetico, ciò che significa, in Leonora addio, incorporare nell’organismo della pellicola fotogrammi delle filmografie Roberto Rossellini, Aldo Vergano, Valerio Zurlini, di coloro che hanno plasmato lo sguardo e la coscienza del regista.
Se è per questo, vi è anche spazio per le immagini di repertorio dell’Istituto Luce. E per i rapimenti onirici e per l’estroversione delle musiche di Nicola Piovani. Insomma, c’è tanto, in un’ora e mezza, ma, soprattutto, lo slancio di generosità e follia di un artista che, incamminato verso il secolo di esistenza, non ha pudore a stupire. Forse, i sovversivi autentici sono proprio i novantenni.