Come uno zombie, o come una spettrale proiezione dell’inconscio americano, dal 1957 il musical West Side Story è riuscito a sfuggire più volte alla morte, giungendo sino al presente con il suo sentimentalismo scoperto, gli innesti tra colto e popolare, le metafore sociali inesorabilmente figlie del loro tempo e le sue contrapposizioni radicali. Non a caso da questa scissione tra un’innocenza parossistica e un’estrema violenza, esplicita ed implicita, David Lynch ha tratto gli aspetti più essenziali della narrativa di Twin Peaks, “riesumando” per l’occasione (visto che parliamo di spettri dello schermo) i Richard Beymer e Russ Tamblyn della versione cinematografica del 1961. Perché fu proprio quella versione, resa immortale dalle mirabili astrazioni di Saul Bass, Robert Wise e Jerome Robbins, a far riscoprire il senso operistico del tragico su scala planetaria, ma anche a far percepire la natura subdola della trasparenza hollywoodiana, che, mentre gratificava l’occhio del pubblico, offriva una mise en abyme di contraddizioni, omissioni e ferite collettive aperte, che l’industria dello spettacolo non faceva che riprodurre su diversa scala.
Oggi, all’alba del 2022, la nuova versione di Steven Spielberg ha già dimostrato, dati del botteghino alla mano, di non poter lontanamente ambire allo stesso tipo di vita ultraterrena e di permanenza nell’immaginario. Perché, come ha osservato qualcuno, l’ultimo West Side Story è un film senza target: un’operazione che, con una base testuale e un genere di riferimento di altra epoca, ma un cast di giovani stelle ignote ai più, fatica a incontrare anche una nicchia sparuta di appassionati. A leggere le recensioni di area anglosassone, tuttavia, viene da pensare che si tratti di una percezione costruita, più che di un dato incontrovertibile. È infatti quasi impossibile individuare una penna che si sia sottratta alla tentazione comparativa, e che abbia considerato il film di Spielberg per quello che è, e non per come avrebbe dovuto porsi rispetto al West Side Story del 1961. Così, generalmente, il film è stato bocciato da chi non lo ha ritenuto abbastanza “fedele”, e promosso da chi l’ha trovato “rispettoso”. Ne sono nate una serie di analisi – scena per scena, coreografia per coreografia, nota per nota – di innegabile interesse, ma vincolate dall’idea di dover decifrare un calco alla Gus Van Sant. È facile dedurre che, quando è la stessa critica a ignorare l’oggetto del proprio lavoro, quel film avrà ancora meno chance di esistere.
Ma quando un film arriva a esistere? Sembra raccontarcelo proprio Spielberg con il suo West Side Story, che parte dalle ceneri di un mito e di un modello di spettacolo per penetrare nel presente, in maniera perfettamente speculare a quanto fatto in Ready Player One, dove il punto di avvio era il futuro prossimo, numerico e videoludico. Con le sue spettacolari movenze iniziali, West Side Story si apre come un cantiere. Un luogo in cui si sta costruendo qualcosa, come ci dice anche la collocazione temporale negli anni Cinquanta, nel pieno dello sviluppo di Manhattan. Tuttavia, osservando con attenzione, non risultano esserci davvero degli esseri umani intenti a lavorare. I macchinari sono abbandonati, al massimo utili alla gang dei Jets come alcova e punto di ritrovo. Così come i materiali di lavoro, che sono usati in modo “alternativo” rispetto alla destinazione prevista (le vernici per sfregiare la bandiera dell’etnia rivale, un chiodo per lasciare una cicatrice perenne…), mentre il gruppo di balordi emerso dal sottosuolo si prepara a invadere con le sue scorribande il quartiere.
Insomma, come indicato da un cartello: si sta costruendo un’istituzione culturale come il Lincoln Center, ma nessuno pare prendere la cosa troppo sul serio. Eppure, da spettatori percepiamo un dinamismo sconvolgente, irrefrenabile, perché a lavorare, a costruire, è la macchina da presa. Che, scendendo in picchiata, danzando, elevandosi, o allontanandosi, crea una tensione, guida la nostra attenzione, dà forma a una drammaturgia. Il cinema non è, quindi, come in Ready Player One, una scena da (ri)visitare. Non è ancora tempo per la museificazione, per la celebrazione votiva di un immaginario, per il Lincoln Center. In West Side Story il cinema è al contrario un organismo vivo, incontenibile, che sa dispiegarsi con tutta la sua potenza davanti ai nostri occhi, anche quando si tratta di attraversare sentimenti anacronistici, come dimostra l’innamoramento di Tony e Maria, la devianza più contestata del progetto di Spielberg. Il famoso passo a due del loro avvicinamento è stato infatti sottratto dal contesto del gruppo: lo spiantato di origini polacche e la giovane immigrata portoricana con i loro sguardi si spingono dietro le quinte della festa, dietro i riflettori, in un retroscena de-spettacolarizzato, liberato da almeno uno dei livelli della messa in scena. E quindi, in ultima istanza, presentificato, offerto vivo ai nostri occhi attraverso una nuova dimensione privata. Allo stesso modo, come non leggere i sublimi plongée sulle ombre delle gang che stanno per affrontarsi – sagome appuntite che finiscono per incrociarsi e confondersi – come un altro segno di una rinnovata fiducia verso il potere del cinema di sciogliere, con il suo lavoro, le grandi aporie che da sempre riguardano West Side Story? Dal multiculturalismo ingenuo e fuorviante proprio del musical, agli attuali cul de sac del paradigma intersezionale, a cui nemmeno gli avveduti accorgimenti di Spielberg sul piano produttivo – l’uso dello spagnolo non sottotitolato, l’ingaggio di interpreti latinoamericani – avrebbero posto rimedio. In questo senso, West Side Story non è un aggiornamento, ma è un film totalmente al presente, in cui sono all’opera immagini nuove. In quanto tale, sa anche fare i conti con la fine, la sa indicare in maniera netta, facendoci uscire dal racconto esattamente come il cinema ha insegnato al nostro sguardo: allontanandoci dai personaggi in cui ci siamo identificati, lasciando svuotare la scena, riportandoci anche fisicamente alla distanza da cui siamo venuti.
Se le sale cinematografiche abbandonate di The Canyons erano l’immagine perfetta di un medium che si condannava a diventare rovina, a quasi dieci anni di distanza il cantiere di West Side Story è l’immagine perfetta di un cinema che vuole ancora vivere. Ma deve capire se le macerie che ha intorno sono ciò che è stato distrutto, o ciò che deve essere ancora costruito.