“I fantasmi ci minacciano nella misura in cui vengono dal passato.”
Gilles Deleuze
Se assumiamo come fine ultimo di un artista quello di andare oltre il linguaggio attraverso la metafisica, allora stiamo raccontando una sconfitta che si compie prima ancora che l’incipit del tentativo prenda atto. Provare ad affrancarsi dal linguaggio è inutile quanto è inutile tentare che il nostro subconscio si dimentichi della nostra Storia.
Il cinema di Mauro Santini si rappresenta in questo senso come un sogno insopprimibile, che più che affrancarsi da ciò che già è stato cerca di resistergli, andando incontro da subito a quella dolce malinconia che sottende questa resa al passato di tutti noi.
Impostando ogni suo lavoro come un flusso di coscienza fatto di sensazioni Santini trasforma l’immagine in una scrittura, ossia in un segno la cui significazione si amplifica nella sua ritirata. Scrivere un’immagine si traduce in un tentativo imperituro di arenarsi lontano dal nostro linguaggio (dove “linguaggio” in questo senso può assumere anche il senso del termine “immaginario”), per lasciarlo proseguire quindi solo e privo di ogni scorta che possa trattenerne la sua poesia intrinseca.
In questo senso nel ciclo dei Videodiari il regista ricorre spesso alla sovrapposizione tra i volti e i paesaggi, e proprio come Bergman usava il primo piano per sospendere l’individuazione di un corpo, in un’opera come Cosa che fugge l’incontro tra una foto di famiglia e una veduta notturna sembra quasi assorbire due esseri nel vuoto. Se il cinema di Bergman però “brucia l’icona, consuma ed estingue il volto”, quello di Santini si sposta un passo prima e ne testimonia lo smarrimento. In questo ciclo, composto da Flòr da Baixa, Cosa che fugge, Notturno, Da lontano, Da qui sopra il mare, Petite Mémoire, Fermo del tempo, Dietro i vetri, Di ritorno, Dove sono stato e Dove non siamo stati, tutto comincia spesso da un’immagine molto vicina o alterata dall’esposizione alla luce, per poi definirsi in una passeggiata nella notte o nell’esplorazione di un ambiente solitario, ritornando in ultimo verso l’indefinito, tutto sovrapposto a fasi alterne da vecchie foto, i cui paesaggi sono epigoni di un ricordo lasciato nella mente ma allo stesso tempo impresso sull’obiettivo. Soprattutto in Da qui sopra il mare e in Petite Mémoire la sfocatura del ricordo porta i collegamenti del montaggio a essere guidati dall’istinto dei collegamenti mentali del subconscio, quasi come se a muovere la macchina da presa fosse un occhio in dormiveglia, lungo un viaggio che è quello della memoria. In Fermo del tempo infatti quello spazio ambiguo in cui un ricordo si trova tra il dolore e la gioia rende ancora vivo il passato solo se ne evoca la tristezza, a testimone del fatto che lo scisma tra ieri e oggi non è ancora risolto, mentre se la felicità sorge senza ostacoli la risoluzione del conflitto è ormai archiviata. Le dissolvenze di questo “rumore bianco” rappresentano questa scissione della mente, che molti dei Videodiari riportano a ondate.
Ma il cinema di Santini è anche un’indagine continua e spesso tormentata dalla sua malinconia. In Dove sono stato dietro la voce di Corso Salani Mauro si avventura sulle tracce di Aldo, in un viaggio fisico e allo stesso tempo mentale (ancora torna il rapporto stretto tra volto mentale e paesaggio dell’animo) alla ricerca delle proprie origini spirituali e del proprio modo di intendere il cinema come uno spazio di conforto dal dolore dei ricordi, riportando la sperimentazione a quell’uso intimo che lo accomuna alla poetica del New American Cinema e a i suoi eredi (primo fra tutti Robert Todd). Uno spazio, quello santiniano, circondato da molti amici, che lo spingerà nel 2010 a creare una versione speculare di Dove sono stato, Dove non siamo stati, in cui riprenderà alcune frasi della narrazione del sodale Corso Salani, in seguito alla sua scomparsa. Un’assenza, quella di Corso in questo caso, che tematizza e permea tutti i Videodiari.
E queste ondate di assenza e presenza si compiono infine in uno dei pochi lungometraggi della filmografia di Santini, Flòr da Baixa, nato come un corto e operazione conclusiva di questo ciclo di opere. Un altro cammino nei ricordi usciti con discrezione fuori dal tempo, testimoni fantasmagorici della scomparsa dei propri cari e delle sensazioni che ne derivano, traslate in immagini. Dalla finestra dell’Hotel Flòr di Lisbona le riprese di scarto di Dove sono stato si dilatano e diventano il centro immaginifico sia del corto che del lungo, a testimonianza di un costante cambiamento nella filmografia di Santini, che muovendosi nel paradosso dei suoi film come raccolte in cicli ma anche come monadi indiscusse, trova la pace dall’irrequietezza del suo trasformarsi in una vista illuminata da una finestra, che fa pensare a un ricongiungimento sentimentale e intimo.
Chi sogna di più, mi dirai —
Colui che vede il mondo convenuto
O chi si perse in sogni?
Che cosa è vero? Cosa sarà di più—
La bugia che c’è nella realtà
O la bugia che si trova nei sogni?
Chi è più distante dalla verità —
Chi vede la verità in ombra
O chi vede il sogno illuminato?
Chi sogna di più, Fernando Pessoa
Nel ciclo Giornalieri di città e passanti (Un jour à Marseille, Sao Mamede, Lisboa e Calle De Atocha, Madrid) il discorso della scomparsa prosegue attraverso un lavoro di sottrazione che rinnova il senso del termine “osservativo”, non tanto inteso come categorizzazione di un tipo di cinema del reale – sottointendendo a questo ragionamento che ognuno di noi ha un reale differente a seconda del suo specifico mondo e rifiutando di fatto questo tipo di accezione, che rischia di appiattire tutto e di privarci della luce del senso – quanto piuttosto come oggetto cinematografico come inevitabile summa dell’esistenza, come è chiaro in Un Jour avec Andrée, in cui Santini segue la quotidianità di Andrée Tournès, storica del cinema e tra i fondatori della Fédération des ciné-clubs de jeunes e della rivista Jeune Cinéma. Osservare è quindi un’attesa sperimentata nello spazio e nel tempo presente e passato, un appostamento dietro le imposte di una finestra d’albergo mentre la vita scorre davanti al cineocchio.
Succede anche in Le vacanze (Attesa di un’estate, Fine d’agosto, Qualcosa nei passi e nello sguardo), in cui l’attesa che torni un ricordo rende il cinema di Mauro Santini sempre più impalpabile, come le acque basse della riva dove la cinepresa si immerge, come le strade di montagna in cui la memoria di Mauro si materializza nelle riprese fatte durante una gita con il figlio, in cui paradossalmente la memoria traslandosi dà l’impressione di diventare quasi un ricordo del futuro.
Ma è nei cicli Le passeggiate e Vaghe stelle che l’immagine si assottiglia sempre di più (“Non c’è più la mia casa, i muri si spalancano, e io mi metto fermo; così fermo da sembrare che le cose si muovano). In Quinta passeggiata, quasi niente la sottrazione totale di qualsiasi messa in scena prosegue l’operazione del montaggio come stesura di appunti istintuali, regalando frammenti di bellezza che in determinati momenti, una volta che lo sguardo diventa in grado di fuoriuscire dai canoni della protezione enciclopedica, riescono a lasciare agire l’energia dirompente e aforistica di un cinema sperimentale che è ben impiantato nella storicizzazione ma che allo stesso tempo se ne distacca, per assumere una propria identità e diventare unico nel suo genere.
Filmare in questo specifico senso non è soltanto sapere che attraverso il montaggio, attraverso cioè la soluzione dello stile, non è necessario che passi il meglio, ma è anche non poter assolutamente far precedere allo “scrivere” il suo senso; far discendere cioè il senso, ma innalzarne contemporaneamente l’iscrizione.
Questa recherche del sublime nel banale sottolinea spesso le immagini attraverso la sovrapposizione di un’inquadratura su se stessa (Alkaid), compiendo un’operazione tautologica in un ambiente scosso dai rumori e dai contorni che lo rendono tale. Costruita questa deterritorializzazione che ha avuto e ha come basamento una volutamente inesistente extra-territorialità, a Santini bastano allora le rifrazioni dell’occhio per tramutare una stazione (Alioth) in un’immersione subacquea (Megrez), all’ombra delle Luci di una Centrale Elettrica (Dubhe).
Alla fine dei cicli, una montagna, un segno da non oltrepassare, ma proprio per questo è necessario tentare di varcare il passo. Nel suo ultimo cortometraggio, Canto della terra, Santini piange ancora la perdita, l’assenza, celebrando gli amici perduti (torna ancora quel cinema fatto di cari amici, che ne intessono la sostanza più profonda). Attraverso una sola inquadratura, ingrandita, rallentata (la confusione del tempo e dello spazio torna sempre), accompagnata da una nenia in un linguaggio forse immaginario, ancora una volta si tenta di afferrare il sottile, raccogliendo quella malinconia (che è poesia) che rimane nel vederselo sgusciare via, oltre le montagne.
Fuori campo, fuori fuoco, costantemente in dissolvenza, i film di Mauro Santini sono un bellissimo e gentilissimo tentativo che sa già di essere vano, di ricercare quella differenza dalla metafisica di cui ho scritto all’inizio, nel montaggio, nella scrittura delle immagini, intese come segni in costante fuga poetica, perché è possibile che sottraendo al valore estetico la sua specificità si liberi il bello.
“In base alle mie osservazioni, ragazzo mio, ritengo che soltanto persone
di un certo tipo siano in grado di scorgere il fulgore,così chiamo dentro
di me quelle braci misteriose.
Il cuore mi dice,ragazzo mio,che nel momento in cui una persona nota
il fulgore, finirà per seguirlo.”
Caduto fuori dal tempo, David Grossman