“Tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo, perfettamente
individualizzato e costantemente visibile.”
Sorvegliare e Punire: Nascita della Prigione, Michael Foucault
Ariaferma è un film maieutico e benthamiano.
Maieutica è la sua strutturale scomodità: una tensione ferma informa tutto il film, creando l’aspettativa di un climax che, di fatto, non viene mai raggiunto. Quello adottato è nello specifico il metodo platonico-socratico per la ricerca autonoma di una verità da trovare in se stessi, appunto quello maieutico. Un metodo dialogico, che porta l’interlocutore a «partorire» – maieutica proviene dal termine greco μαιευτική (τέχνη) ossia (arte) ostetrica – la verità, piuttosto che imboccargliela. Ma qual è la verità di Ariaferma, allora? Tenendo a mente che essa è il prodotto di una ricezione e riflessione soggettive, ma pur sempre indotte, questa verità è scomoda tanto quanto il ritmo che scandisce il mezzo attraverso cui ci perviene. Il film infatti implode lentamente ed esponenzialmente nel tentativo manifesto di smentire, sovvertendola, la liturgia carceraria, denudandoci del nostro immaginario incancrenito: il carcere può eccedere la concezione di luogo privilegiato di una violenza punitiva spettacolarizzata e concepire la pena detentiva in un’ottica riparativa, più benevolmente umana. Ariaferma ci fa assistere alla decadenza di una gerarchia di cui si mette in dubbio non solo la vitalità, ma la validità stessa. L’equazione “permissività = trasgressione” viene elegantemente annullata, così come annullati sembrano essere anche gli spazi, e di conseguenza le differenze, fra chi imprigiona e chi è imprigionato, in questo caso rispettivamente i personaggi-contrappesi di Toni Servillo e Silvio Orlando, che dettano l’intera azione-operazione.
Benthamiano è l’impianto: nel 1791, Jeremy Bentham, teorizza un carcere ideale e lo chiama Panopticon. La sua architettura prevede una torre di controllo centrale e una serie di celle disposte circolarmente, le quali garantirebbero una sorveglianza costante, eppure, invisibile. In termini foucaultiani, la disciplina-blocco, quella dell’istituzione chiusa che sospende tempo e comunicazioni, verrebbe surclassata da una disciplina-meccanismo, ossia dal panoptismo: un dispositivo disciplinare panottico renderebbe l’esercizio del potere orizzontale, rapido, leggero ed efficace. Ma il principio del fornire a pochi, se non a uno solo, la vista istantanea, dunque l’ispezione di molti, evade dalle mura carcerarie. Riflessioni contemporanee applicano lo stesso principio speculando sul tipo di società in cui viviamo: la surveillance culture e la surveillance society sono di tendenza. Gilles Deleuze nel suo seminale saggio Poscritto sulle società di controllo, articola all’alba degli anni novanta l’idea secondo cui da una foucaultiana società disciplinare ci staremmo muovendo verso una società di controllo. In questa fase le strutture panottiche del potere si fanno infrastrutturali piuttosto che architettoniche e il potere, esercitato attraverso una sorveglianza latente ma invadente, si affida a tecnologie digitali e non più che fisiche, spaziali. In Ariaferma il Panopticon è un escamotage – ancora spaziale – che funziona, un elemento registico portante, che dirige – regia deriva dal latino regĕre «dirigere» – esso stesso. Nel film ci si fa riferimento semplicemente con il termine “la rotonda”, ma forse è qualcosa di più: una piazza, un’arena, a volte più teatrale che cinematografica. È un palco in cui lo scambio di ruoli secchi e predeterminati sembra essere sull’orlo di degenerare in una rivolta, da un momento all’altro. Eppure, per qualche motivo, non succede.
La risoluzione del film è allora pacata, ma interrogativa. Perché quella rivolta non è mai scoppiata? Chi è davvero in carcere e chi no?