In Allucinazioni Americane Roberto Calasso nell’analizzare La finestra sul cortile e La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock, si soffermò sui due sensi, ambivalenti e ambigui, che l’immagine può assumere all’interno dei suoi vari dispiegamenti e intrecci con la narrazione. Il primo senso è assimilabile all’idolo, qualcosa di sovraesposto che rischia di essere scambiato per “il mondo” e non per “un altro mondo”, dando adito a fraintendimenti retorici e alla perdita di ciò che rimane al di là della finzione, mentre il secondo senso è la copia, un’entità incatenata nella gabbia dell’imitazione, destinata a svanire a confronto con l’originale. Ciò che è in grado di liberare l’immagine narrata, mossa dall’incedere di una storia, è la lotta, in ogni sua accezione. L’infuriare di una rivoluzione dell’immagine nei confronti del destino che la attende la salva da una collocazione passiva in questi due macro insiemi di riferimento, in queste due gabbie dorate si potrebbe anche dire.
Sono tanti i sentieri che una lotta, una dislocazione dell’immagine, può assumere, e spesso il cinema documentario ci fornisce la possibilità di osservarne diversi, come succede in un festival come il 30_70 Doc Fest, il primo festival italiano dedicato ai film tra i 30 e i 70 minuti, di autori internazionali under 35 alla loro opera prima o seconda, che utilizzano il linguaggio cinematografico come strumento di ricerca, formazione e divulgazione culturale. In parte in presenza e rimasto online fino al 31 Dicembre 2021, il 30_70 alla sua seconda edizione ha declinato il concetto appena espresso attraverso chiavi di lettura tra le più diverse, ma tutte riconducibili a questo infuriare della luce, parafrasando Dylan Thomas, attraverso film che spesso rifiutano il compromesso e indirizzano lo sguardo verso storie che non cercano mai una categorizzazione.
È il caso di Taking Back the Legislature, del collettivo Hong Kong Documentary Filmmakers, in cui la ripresa dei riot durante il tentativo di occupazione del Consiglio Legislativo diventa parte integrante dei riot stessi. La camera si impersonifica in uno dei manifestanti, si identifica nella rivoluzione e in mezzo al caos della guerrilla urbana sembra rimanere intatta, perché totalmente mimetizzata. L’occhio dietro la lente riesce così ad alternare, a ondate, un tipo di cinema del reale a volte più vicino al reportage giornalistico, mentre altre più simile a un documentario cinematograficamente osservativo, in grado di costruire un unico piano sequenza di venti minuti durante lo sfondamento della vetrata di ingresso del palazzo del Governo. Testimonianza della disperazione della gioventù di Hong Kong contro uno Stato che annacqua sempre di più il senso della parola democrazia, Taking Back the Legislature porta alla ribalta quel senso di cinema della rivolta visto in altre precedenti opere che hanno raccontato la guerra siriana come Still Recording o le difficoltà degli studenti universitari indiani in A Night of Knowing Nothing.
Proprio del rischio che il cinema diventi propaganda parla One Image, Two Acts, di Sanaz Sohrabi, in cui tubi spessi tagliano il deserto roccioso nelle foto dell’archivio della British Petroleum, che parallelamente all’infrastruttura per la produzione di petrolio nell’Iran meridionale ha anche creato un ampio archivio di immagini. Film e fotografie non solo hanno registrato lo sviluppo industriale, ma anche i lavoratori e la società. Successivamente è stata creata una rete di cinema, con la creazione di film che dipingessero l’ambiente circostante come un paradiso terreno, omettendo tutti i soprusi compiuti contro i lavoratori. Attraverso un lavoro di ricerca che muove dalle premesse Foucaultiane di Sorvegliare e Punire, la regista mette in atto un’operazione dichiaratamente situazionista, che usa il cinema iraniano per raccontare altro cinema iraniano, in un gioco di specchi in cui un tipo di immagine si scontra con un’altra, mettendone a nudo gli angoli più nascosti, imprevedibili e spesso anche pericolosi.
Non c’è lotta più attuale di quella fra le specie. In Considering the Ends (Nous la Mangerons, c’est la moindres des choses) Elsa Maury filma la vita di una ragazza e il rapporto con il suo gregge all’interno di un allevamento “estensivo”. Il film mostra come nonostante l’affetto e le premure, un sistema che riduce l’animale a merce di consumo non può far altro che distruggere quel senso di fratellanza che la protagonista del film sviluppa con le “sue” pecore. Il viaggio verso il macello diventa così un percorso di consapevolezza e allo stesso tempo di disincanto, in cui il potere sotteso allo sfruttamento animale si manifesta in tutta la sua crudeltà. La camera non si scosta mai dai corpi cadaverici di pecore che fino all’inquadratura precedente erano state allevate con affetto manifesto (ma mai del tutto vero, per le “inevitabili leggi di mercato”) dalla ragazza, e il suo avvicinamento alla viscere è una sfida lanciata, come i sassi di Taking back the Legislature, verso gli occhi del consumatore medio, che non sa e non vuole sapere da dove proviene il suo cibo. Ma in Considering the Ends il distacco voluto dello sguardo apre voragini sull’immensa tristezza che sottende l’oggettificazione del corpo animale, la banalità di un male che solo un cinema sovversivo è in grado di portare all’evidenza.
Del resto il confronto con l’altro da sé sta al capo opposto di ogni battaglia che abbia mai avuto origine all’interno della storia del mondo, che sia questa tra grandi gruppi o anche con un individuo preso a caso dalla folla, come in A man and a camera, in cui il regista Guido Hendrikx rimane in silenzio dopo aver suonato alla porta di ingresso della case di tutto il vicinato, filmando la reazione dei padroni di casa. La scelta di Hendrikx di rimanere ostinatamente in silenzio mentre tiene la macchina da presa sulla soglia mostra come chiunque apra la porta sia in grado di mostrare un presupposto diverso: dalla paura dell’ignoto, all’accoglienza sfrenata, alla violenza fisica che scaturisce dalla paura di vedere minacciata la propria proprietà privata. Durante questo esercizio sociologico il film, inusuale ma a suo modo geniale, smaschera molte delle sovrastrutture che regolano il senso dell’ospitalità borghese, mettendo spesso a disagio anche lo spettatore, che non può fare a meno di interrogarsi su cosa avrebbe fatto lui stesso, se da dietro lo schermo ci fosse finito dentro. Un cinema fatto di movimenti di camera a mano volutamente casuali, quasi amatoriali, volto a imitare la forma diaristica e allo stesso tempo il meta documentario come strumento di identificazione collettiva, come specchio buffo di un’alienazione sottile ma ineludibile.
[Mario Blaconà]
La tensione dell’ascolto
Per certi documentari l’immagine non è una postura ma una tensione, una tensione di ascolto che smonta le rigidità argomentative, le facili strategie, i discorsi precostituiti e brandizzati: l’immagine in ascolto si lascia investire dalla realtà che rappresenta, facendosi non tanto specchio riflettente quanto lastra impressionabile e impressionata, superficie sensibile a tutte le forme in grado di parlare, a tutte le forme che vogliono essere ascoltate. È il caso dei documentari di osservazione, ma non solo, è in generale il caso di tutti i film che cercano di avvicinarsi al reale conformando le proprie immagini e quindi le proprie rappresentazioni al rispetto che il reale richiede per essere raccontato e testimoniato: in questo senso ogni realtà chiede forse un’immagine diversa, un’immagine a volte di continuità, a volte invece di rottura, un’immagine che smentisca il reale per dirlo più in profondità o per rivelarne aspetti latenti o tenuti nascosti. Tutti i migliori documentari sono in questo senso divisi da ciò che li unisce, perché nella volontà di essere unici come le storie che raccontano sono uguali nell’aderenza a un principio di ritegno pressoché assoluto, vincolante e anche radicale.
È così anche per gli sguardi coraggiosi e in costruzione, aperti all’ingenuità e agli sbagli come al coraggio e alle rivelazioni, di chi sceglie il documentario come forma d’elezione per rapportarsi alle storie del mondo: tre film molto diversi come Faraway My Shadow Wondered, Frezeit: the Opposite of Doing Nothing e Last Knights of the Right Side, presentati durante la seconda edizione del 30/70 Doc Fest, sembrano mossi in fondo da una stessa necessità che si fa regola formale e tratto comune, non per moda imposta ma per intuizione condivisa; questa necessità è appunto quella del ritegno e del rispetto della realtà che passa di fronte all’immagine, sia essa il ricordo di una promessa non mantenuta che forse può finalmente essere confrontata, o la continua rincorsa verso un futuro da strappare all’idealità della chiacchiera, oppure ancora la paura di persone che odiano il mondo e neanche se ne rendono conto, tanto sono immerse nelle proprie menzogne identitarie. In tutti questi tre casi le immagini abbandonano da subito qualsiasi intenzione di appropriazione del rappresentato e si affacciano piuttosto verso quello che vedono sulla spinta della fascinazione del mero accadere, anche se distante e cifrato, lontano e del tutto estraneo a spiegazioni.
Faraway My Shadow Wondered, diretto da Liao Jiekai e Sudhee Liao, si apre proprio sull’ascolto del riflusso delle onde e delle loro tracce sulle rocce, in un passaggio che insegue le vibrazioni evanescenti dell’acqua fino sul corpo danzante di una giovane donna stesa davanti al rumore del mare. Le mani della ragazza scrivono sulla terra e poi in aria, lasciando segni invisibili o forse riconoscendo la presenza nascosta e invisibile di queste tracce nella natura, come fossero già esistenti, mentre un giovane ragazzo la vede e non esita a fotografarla, prima di recitare una preghiera rituale. Al di là dell’incontro tra le tensioni mediali del film – il documentario d’osservazione sfuma nella video danza per poi ricompattarsi in una posizione di intercettazione del reale più silenziosa – a essere innescato è il confronto tra persone che si interrogano sull’eredità di un passato (i desideri del nonno del ragazzo protagonista) che non può tornare ed eppure sembra vivere tra le cose del presente, nella filigrana della sensazione di chi ancora ricorda.
Il film segue la coppia in questa interrogazione che è inabissamento nei momenti e nei luoghi della perdita, in una ricerca della possibilità che questo perduto sia rimasto fissato in qualche punto che è possibile riscoprire, custodire, conversare. Seguendoli si adatta alle loro domande, si fa cioè spazio di ascolto che, comportandosi come una rete di ricezione o un sismografo, può ospitare la traccia di qualcosa che è scomparso e potrebbe per un momento ricomparire come segno cifrato. L’immagine cinematografica può infatti captare la vibrazione di momenti sfuggenti e indistinti, che nel loro offrirsi senza priorità drammaturgica chiedono una partecipazione irrinunciabile e diffusa. Questa stessa immagine-sismografo è l’unità minima su cui sono pensati Freizeit or: the Opposite of Doing Nothing e Last Knights of the Right Side: film di auscultazione della realtà politica, del discorso politico e dell’azione politica che piantano i piedi nell’esplicito e nella superficie per tentare di scoprirne i tic, le fragilità, gli improvvisi sfasamenti e così arricchire l’immagine attraverso il patrimonio della realtà. Nel primo caso l’oggetto dell’ascolto sono dei giovani ragazzi tedeschi che passano le giornate a discutere della realtà che li circonda, della loro responsabilità, dei loro sogni e delle loro utopie; nel secondo i membri di un gruppo polacco di estrema destra, compatto nella difesa della patria dalle contaminazioni della “minaccia progressista”.
Nel film di Caroline Pitzer il presente in cui questi ragazzi cercano di capirsi e inquadrarsi non è diverso dal tempo opaco in cui si agitano il ragazzo e la ragazza di Faraway My Shadow Wondered: è un momento carico dei fantasmi di un passato impossibile da rivivere, anche nella rievocazione dei fervori d’epoca (attraverso la lettura appassionata degli scritti di Schernikau, scrittore tedesco che negli anni ’70 ebbe un ruolo politico importante), e che tuttavia si cerca di incarnare e riscattare al di là di ogni virtualità con il proprio corpo e con le proprie parole. Le riprese senza stacco e senza montaggio dei lunghi discorsi tra i ragazzi si sostanziano come tentativo documentaristico di cogliere in pieno questa strana azione travestita da inazione – le scene degli attraversamenti cittadini galleggiano fuori tempo per trasmettere lo stato di sospensione e disorientamento – che non è affetta da pietose retromanie ma è invece investimento del proprio tempo in libertà di pensiero e di ragionamento sulla vita e sul mondo. Tempo, quindi, come suggerisce il titolo, davvero libero da ogni costrizione e controllo, a differenza del tempo libero che la mercantilizzazione, interessata a investire sempre più capitale proprio sull’occupazione coatta del tempo non occupato dei giovani, tenta di formattare a proprio piacimento.
L’immagine in ascolto fa “non facendo nulla”, annuncia un ribaltamento delle logiche dominanti rimanendo ferma e improduttiva (il film di Pitzer si tronca a metà di un discorso che prosegue oltre, come a dire la natura di testimonianza passeggera delle proprie immagini). Il suo unico movimento è il leggero arretramento proprio dell’interrogazione, dello sforzo di comprensione. Se nel primo film citato questo posizionamento rispettoso si fa centro gravitazionale intorno a cui ruotano tensioni invisibili (temi, corpi, movimenti) e nel secondo codice funzionale a un ripensamento dell’azione politica, nel caso di Last Knights of the Right Side è occasione per rendersi disponibili a una realtà problematica. La rappresentazione dei pregiudizi di un gruppo di estrema destra dichiaratamente omofobo e razzista è infatti un’operazione cinematografica difficile. Michal Edelman sceglie di confrontare a uno a uno i membri del gruppo, di ricostruire la dietrologia sottesa alla loro scelta politica, senza però l’intenzione di fornire alibi e giustificazioni: scopre dietro le maschere delle apparizioni pubbliche un insieme umano molto poco omogeneo, anzi, piuttosto incoerente. La sua immagine non è timida neanche di fronte a velate minacce (“chi non è designato non parli con i media” ricorda il coordinatore del gruppo prima di una marcia), ma anzi si dispone come raccolta di momenti che svela in negativo (a tratti anche con punteggiatura leggermente satirica) le fragilità e le debolezze, la paura e l’ignoranza di una realtà umana complessa, e trova al di là di ogni facile argomentazione uno spazio di riflessione che genera domande dove si presumevano solo risposte.
[Leonardo Strano]