«Rendere tutto archivio è il procedimento inflattivo deliberato con cui abbiamo deciso di annullare l’archivio […] Noi dichiariamo che NULLA È ARCHIVIO. Ogni filmato che si realizzi in una situazione reale non attira quella realtà ma si autogenera esso stesso come nuova realtà, documento di niente se non di se stesso, testimonianza di nulla se non dell’incontro tra l’autore e la situazione in cui si è generato». Così dichiara il terzo punto del documento “Proposizioni dell’assemblea di montaggio” redatto dai componenti dell’assemblea e laboratorio di montaggio 1 che ha portato alla realizzazione del film Rondò Final, in concorso nella sezione internazionale del 62° Festival dei Popoli. Un testo che sembra riemerso dagli anni Sessanta, dai famosi statuti delle scene e cooperative underground americane ed europee. Invece siamo ai giorni nostri, in Sardegna. Rondò Final è un film “a staffetta” come dichiarato nei titoli di coda del film, frutto della visione plurale di più teste. Lo definirei una dilatazione del tempo che ripercorre in maniera sensibile e (volutamente) disomogenea un secolo di immagini legate a una delle feste religiose più importanti della Sardegna, quella di Sant’Efisio. Sant’Efisio fu mandato nell’isola a perseguitare i cristiani, poi convertirsi e decapitato, fu fatto santo martire durante il Seicento, quando i cagliaritani si affidarono a lui per liberare la città dalla peste.
Questa “icona che muove le genti” diventa il pretesto per la realizzazione di una narrazione cosciente, capace di riflettere e reinventare l’immagine d’archivio, fiera di mostrare le proprie dis/connessioni in corso. Su questa scheggia originale nella scena contemporanea del found footage nazionale, abbiamo intervistato Gaetano Crivaro e Margherita Pisano che insieme a Felice D’Agostino hanno firmato la regia del film.
Guardando il vostro film la prima cosa a cui ho pensato è il significato di comunità. La ritroviamo nel soggetto, il rito, ma anche nella vostra modalità di realizzazione dell’opera. Come si sono incontrati questi due aspetti e quanto avete riflettuto sull’incontro tra contenuto e tecnica?
MP. Più che rifletterci è nato come un’esigenza. All’inizio il film partiva da noi due poi ci siamo resi conto che non eravamo in grado di “aprire” il materiale filmato in quegli anni e quello dell’archivio. Pur avendo un’idea di come restituire quelle immagini, non riuscivamo a muoverle. Qui è nata proprio la necessità di coinvolgere altre persone, innanzitutto nella visione. In generale noi ci muoviamo da sempre con la convinzione che anche se un film è del regista è sempre un’esperienza collettiva, spesso non esplicitata. Un film si alimenta continuamente di persone con cui ti confronti e noi volevamo provare a renderlo palese fin dalla partenza.
GC. Si questo è vero, anche se alla fine anche noi tre siamo caduti nell’essere registi lavorando al film per altri due anni. In ogni caso tutti e tre veniamo da esperienze di lavoro collettivo, ce l’abbiamo nelle corde il doversi relazionare e dover rinunciare a qualcosa. Quando fai un film con altri devi partire dal presupposto che non è una sfida all’idea che vince ma è un modo per incontrare due o più cose. E sulla sagra il bello è che nessuno di noi va in chiesa la domenica, nessuno è credente. Ma quella figura mobilita un sacco di gente, sia chi crede e chi non crede. Ritrovarsi lì, insieme ad altre persone che erano anche scettiche rispetto a fare un film su un santo, è stato il modo per mettere in relazione il nostro materiale con quello proveniente dal passato. Infatti il Santo c’è pochissimo nel film.
Si, se uno non sapesse che quello è il soggetto sarebbe difficile capirlo. Ho notato anche una forte contrapposizione tra i film d’archivio che vanno nel dettaglio, sguardi e piedi, invece le vostre riprese sono riprese tra statiche da lontano. Come se oggi fosse difficile avvicinarsi alla collettività o appartenere a un gruppo
GC. Si, è una scelta che dipende anche dal supporto e il modo di filmare a mano. Inizialmente osservavamo tutto da fuori, eravamo colpiti dal paesaggio e da questa massa indistinta che attraversava lo spazio. Tra l’altro, questa processione si svolge il primo maggio che per me è sempre stata la feste dei lavoratori a Roma, dove ho vissuto per dieci anni. Ed è significativa la scena in cui la processione passa con il Santo davanti a questa fabbrica enorme, come se fosse una cattedrale nel nulla. Sant’Efisio è anche protettore dei lavoratori.
Quindi il primo anno ci siamo fermati sul paesaggio, il secondo anno abbiamo deciso di seguire tutto. Lì nasce anche la scena finale, quella con il bambino che fa capolino. Siamo noi che siamo dentro, non siamo più fuori. C’è un avvicinamento.
MP. Sì, poi nell’archivio c’è poco paesaggio. Ed è vero che dipende dal supporto ma anche secondo me dal fatto che nelle feste del passato c’era anche un aspetto estetico diverso. Noi oggi vediamo la sagra come qualcosa di ancestrale, anche se è una cosa che in realtà è molto più kitsch, un po’ come lo sono diventate tutte le sagre. Quello che sicuramente è dentro è il suono, che ho registrato io e appartiene sempre al presente. Ci sono solo due pezzi dal passato.
La dimensione sonora crea infatti un’altra narrazione. Si vede che è calibrata e studiata nei dettagli proprio per creare un’altra dimensione. C’è una costruzione che si palesa fortemente. Ed è anche dichiarata all’inizio quando compare più volte la scritta “un film”, o sbaglio?
GC. Sì, ma è anche una domanda. È un film? Non lo è? Convinciamocene. Siamo in 10, sono dieci film?
MP. Si, all’inizio nasce come un gioco. Lo abbiamo poi rivisto in una seconda assemblea in cui stavamo sistemando alcuni pezzi e ci ha convinto perché dichiara non solo che è un film ma anche i quattro passaggi al suo interno: nasce da un’idea, si imposta registicamente come metodo di lavoro sull’archivio; poi prende un’altra strada di riconnessione. Inizialmente nel primo premontato si sentiva molto di più lo stacco tra i singoli pezzi sui quali ognuno aveva lavorato. In questi pezzetti poi alcune cose sono cadute, altre si sono mescolate. Alla fine con il mixaggio c’è stato un altro momento di rimessa in discussione del film perché l’impianto sonoro era totalmente diverso rispetto a quello di partenza. Nel sonoro non c’erano ancora la voce e i passi. La sequenza della fabbrica ad esempio non c’era proprio
Spesso si ha l’impressione che i materiali d’archivio parlino da soli, che sia sufficiente accostarli l’uno di fianco all’altro per creare qualcosa. Rondò Final smonta del tutto una modalità classica di lavorare sul materiale. È un’idea nuova, soprattutto in Italia dove si ha la tendenza a lavorare su di esso come se fosse materiale di repertorio, con forti omologazioni in cui abbiamo una voce narrante che contestualizza per forza quella situazione. C’è sempre una storia legata a un vissuto o a un tema preciso. Avevate già in mente dei non-modelli da seguire?
MP. Sì, era il nostro presupposto in assemblea di montaggio. Abbiamo anche scritto una sorta di regolamento. Primo tra tutto, l’archivio non è un documento. L’altro aspetto era quello di evitare l’utilizzo di una voce narrante che usasse l’archivio come documento per dimostrare una tesi sul passato. Per noi l’archivio non è passato perché lavoriamo su diverse temporalità: Stefano Grosso, che ha lavorato sul mix del suono, ci ha detto che per lui il film è un’unica inquadratura, un unico tempo. Ci siamo anche ritrovati in questa visione perché noi intrecciamo completamente tutte le temporalità al di là delle epoche in cui sono stati girati.
GC. Volevamo lavorare sulle immagini cercando di spogliarle dal contesto, guardandole come se fosse stata la prima volta, comprese quelle prodotte da noi. Infatti il film inizia dicendo “di fronte a un’immagine dobbiamo riconoscere con umiltà che essa ci sopravvivrà”. È l’incontro tra noi dieci con questa immagine che costruirà il film. Il soggetto del Santo è un espediente che ci ha aiutato a rielaborare 100 anni di immagini provenienti da molteplici supporti. Ad esempio, abbiamo discusso a lungo sulla scena dei bombardamenti, perché il rischio era che finisse per significare la fede che resiste anche durante la guerra. Per noi il problema è stato come spogliare quell’immagine di quella retorica. Non so se ci siamo riusciti, perché comunque il dramma arriva a prescindere. Per noi tutte le immagini sono uguali, un’unica inquadratura.
MP. E poi l’altro presupposto era il lavoro sul suono, perché l’altro rischio era andare a sonorizzare semplicemente delle immagini, proprio perché noi lavoriamo proprio sulla dichiarazione di questo finto sync diegetico.
Nella prima inquadratura lunga il suono viene da giù. Non c’è cielo; nel secondo vediamo il ponte e poi solo il cielo. Abbiamo deciso di mettere il suono degli uccelli nella prima (senza cielo) e non in quella dopo. Il suono ti conduce verso l’altra immagine attraverso un lavoro percettivo. Non di significato dell’immagine.
Il carico percettivo, corporeo, aumenta nei momenti in cui l’immagine non c’è, in quelle pause nere lunghe, ma che funzionano e rispettano il tempo del film.
MP. Lì avevamo la necessità di separare i canti, carichi di esotismo, con le immagini. Era proprio un invito a godersi il canto nella sua fisicità senza accostarlo a nessuna visione folklorica. Così anche la voce. Per noi il testo del film è fondamentale, è la chiave attraverso la quale abbiamo lavorato su di esso, però è appena sussurrato. Ma a noi non interessa.
Lo sforzo che viene chiesto allo spettatore è tendere l’orecchio verso lo schermo, avvicinarsi.
Io associo questa operazione ai ricordi di bambina, quando sei dentro a questi riti c’è sempre qualcuno che bisbiglia ai margini. È un eco che ha anche un po’ quella valenza.
Tornando indietro, come vi siete mossi sui materiali?
GC. Io ho lavorato in Cineteca Sarda alla digitalizzazione di filmati di famiglia. Quando ci siamo trovati di fronte alla processione abbiamo deciso di fare qualcosa. Abbiamo chiesto alla Cineteca il materiale ma non c’era un’idea precisa, non cercavamo un’inquadratura: qualunque famiglia di cagliaritani in un momento della propria vita ha fatto una bobina sulla cerimonia. E poi ci siamo imbattuti in Nino Solinas, che è il fondo prevalente. A un certo punto abbiamo guardato quello che avevamo filmato noi, poi i suoi girati e ci siamo accorti che 40 anni fa c’era uno che stava guardando le stesse cose. Ma del perchè non ce ne interessava.
MP. Questo fondo lo abbiamo scoperto molto prima durante un altro progetto sperimentale che si chiama Videoritratti in Sardegna. Solinas aveva fatto una serie di video-ritratti, nel modo in cui li facciamo noi. Così poi è stato naturale ricercarlo anche per Rondò e rimetterlo in scena in modo diverso.
Voi cosa ne pensate di questo forte aumento di opere di found footage che utilizzano materiale d’archivio. Sembra che la generazione di oggi senta l’esigenza di raccontarsi attraverso le immagini del passato.
GC. Secondo me è un pratica che si è amplificata anche con il Covid. Bisognerebbe attendere qualche anno per vedere chi rimane, nel senso che questo momento è stato un modo perché le persone chiuse in casa potessero sentirsi ancora creative. Anche noi abbiamo accelerato i ritmi del film in questo periodo. Contemporaneamente, l’altro giorno ho comprato un proiettore 16mm a Milano e parlando al telefono con il venditore del negozio gli ho raccontato che ho preso una 16mm, ma che avrei voluto prendere una Bolex ma costava troppo. Anche solo cinque anni fa le Bolex non erano così care. Lui mi ha detto una cosa interessante, che i giovani nati con il pixel si sono stancati di esso e cercano rifugio in cose meno perfette, meno prevedibili. Perché la pellicola è imprevedibile, conserva una forte componente umana e non è preconfezionata come l’immagine digitale.
Anche perché l’immagine digitale è ormai quella con cui racconti il quotidiano, come se rappresentasse un medium svalutato e per fare un’opera sia necessario un mezzo da elevare ad artistico. Come se il pixel fosse diventato amatoriale e la pellicola in formato ridotto no.
GC. Si. C’è poi da dire che siamo così sovraccarichi d’immagini che la domanda che ci siamo posti anche noi negli ultimi anni è stata: perché devo fare altre immagini se le stesse immagini ci sono già? Io prima filmavo davvero tanto. Ora sempre meno, non faccio più nemmeno foto con lo smartphone.
MP. Io credo sia anche un rapporto dell’occhio con l’immagine digitale. Le immagini digitali per quanto bellissime e perfette non ti diano il senso della presenza della luce e dell’ombra. Mentre quando ritrovi la grana, l’imperfezione della pellicola – pur essendo digitalizzata – quasi quell’immagine porta con sé chi l’ha filmata, è meno fredda. In più, ti spinge a fissare un limite: l’immagine digitale ti porta a girare ore e ore ore portando spesso ad una confusione estrema, mentre la pellicola ti impone un pensiero alla base per il poco tempo che hai. Noi ce lo diciamo sempre, si chiamano filmati di famiglia, cineamatori, ma in realtà queste persone filmavano benissimo. Avevano poco tempo e inoltre manuali meravigliosi che ti spiegavano non tanto come funziona tecnicamente la telecamera ma come impostare un inquadratura, ad esempio la prospettiva.
GC. La distruzione secondo me è avvenuta con il Super8. Ha un po’ cambiato anche il modo di filmare perché con esso è nato lo zoom, gli automatismi. La cinepresa 8mm è tutta manuale quindi era necessario che chi filmasse sapesse davvero usarla.
MP. Inoltre la troppa possibilità di lavorare sull’immagine in post produzione che sta lasciando il digitale. Credo sia un ritorno alimentato anche dalle pubblicità, che se ci fai caso sono piene di immagini analogiche e materiali d’archivio.
Quando abbiamo lavorato sugli home movies e abbiamo rivisto le nostre immagini girate, queste ci sembravano banalmente brutte, piatte, perché il nostro occhio ormai trovava la bellezza in un altro tipo di fotogramma. Ma ora insieme comunicano.
Per concludere, come siete usciti da questa esperienza e cosa ne farete?
MP. Rispetto alla cerimonia mi ha permesso di levarmi tanti pregiudizi relativi al rito. Al lavoro insieme, estremamente arricchita. Lavorando insieme si ha la possibilità di muoversi di più. Tu fai una riflessione a voce alta, l’altro la coglie e ne fa un’altra e via così. È la possibilità di far muovere il pensiero e farlo crescere.
GC. Si, questo film è quello che rimane, ci sono mille idee insieme. Anche se è il nostro film rende conto e risponde ai contributi delle idee di coloro che sono venute prima. Tant’è che quest’estate abbiamo fatto un altro laboratorio con gli stessi partecipanti e alcuni nuovi. A novembre un altro ancora. È un modello in cui crediamo fortemente. Il laboratorio di quest’estate partiva da una riflessione opposta, ovvero quanto è analogico un pixel: avevamo solo opere con materiale scaricato da YouTube e abbiamo chiesto a 5 autori di realizzare ognuno un corto. Poi ci siamo incontrati in un momento collettivo, in cui ognuno di loro a messo la propria creazione a disposizione dell’altro, sottoponendola a un esercizio di smembramento ulteriore. È un esercizio di arricchimento. Ma non per tutti è semplice cedere la propria opera.
MP. Sono lavori anche molto lunghi, ognuno di noi è preso da progetti personali. Ad esempio con Rondò l’investimento di responsabilità l’abbiamo più sentito noi, anche di ricerca economica. Credo che questa pratica sia nata anche da un’esigenza nostra personale. Entrambi abbiamo vissuto a Roma per tanti anni e lì la possibilità di scambio con altri autori è maggiore. In Sardegna abbiamo visto una chiusura. Quindi volevamo andare incontro a questa cosa. Per noi è anche un modo di crescere.
GC. Poi in generale di progetti collettivi ne esistono tanti. Questo lo è da una parte, però faccio fatica a definirlo del tutto in quel modo. È un esperimento collettivo, sì, ma alla fine per smettere di essere solo un esperimento ha avuto bisogno di tre persone che si prendessero la responsabilità di terminarlo. La ricerca non è ancora finita, non sono arrivato ancora al punto di dire ho fatto un film collettivo. Nel mezzo qualcuno si è perso. È faticoso ma ci si può riuscire. Il nostro obiettivo è arrivare a dire abbiamo fatto un film in dieci, dall’inizio alla fine.
1 L’Assemblea di montaggio è composta da Luca Carboni, Gaetano Crivaro, Felice D’Agostino, Alberto Diana, Arturo Lavorato, Margherita Pisano, Margherita Riva, Vittoria Soddu; è accordata, ispirata e coordinata da Arturo Lavorato e Felice D’Agostino (https://lambulante.org/rondo-final/)