“C’è qualcosa di positivo in me?” è la domanda che sembra echeggiare, fino al punto in cui viene esplicitata, per tutto il film di Chiara Marotta Il momento di passaggio. Il destinatario è sua madre, interrogata sui nodi mai sciolti del loro rapporto, in un momento in cui la distanza tra le due potrebbe farsi decisiva. Ed è nel cuore di questo dubbio – sintomo in fondo di quel bisogno trasversale, senz’altro caratterizzante una generazione zoppa e faticosamente adulta, di ricevere conferme non solo rispetto alla direzione ma anche alla natura del proprio agire nel mondo – che si articola un esordio complesso, enigmatico e gentile nella sua durezza.
Chiara ritorna a trovare la madre, la sorella e la nonna nella casa in cui è cresciuta, per cercare indizi e risposte sul suo vissuto personale, prima che queste si trasferiscano definitivamente nelle abitazioni costruite dalla comunità religiosa di cui fanno parte e da cui Chiara ha deciso di allontanarsi anni prima. Portando avanti attraverso la forma documentaria un esercizio di astrazione, la regista ricostruisce la sua storia familiare senza che si entri mai nei dettagli della comunità a cui appartiene, esplorata solo per gli effetti che genera nelle relazioni al centro del film e della sua indagine.
Dalle prime immagini rubate alla quotidianità delle tre donne, fino al confronto vis-à-vis liberato grazie alla camera, Il momento di passaggio concilia un’apparente semplicità – nello stile sobrio, nella delicatezza dell’osservare, nella pulizia dell’astrarre – a un corpo stratificato di immagini. Il piano della realtà presente ondeggia nel cogliere i piccoli gesti – la cura delle piante, il rifare un letto, la preghiera serale – che scorrono lisci, nonostante rappresentino parte del movente dell’allontanamento della regista e quindi dell’attrito e della distanza. A questo si intreccia un piano immaginato e simbolico, che ricostruisce la comunità nei suoi edifici bianchi in miniature di carta, le statuine dei fedeli, la macchina giocattolo che percorre la strada fino alla chiesa, a sintetizzare il sentire di Chiara: l’immobilità della sua infanzia e il fuoco della sua adolescenza si specchiano sui modellini, ora illuminati, ora distrutti dalle fiamme. Attraverso queste ricostruzioni si ritrova a guardare un mondo distante come un presepe impenetrabile, eppure reale per la sua famiglia.
In punta di piedi, Marotta si addentra nella vita che era la sua e non lo è più, proponendo discretamente la sua presenza, fino a smuovere le acque placide di questi rapporti affettivi e a puntare i piedi per avere delle risposte. “Perché non potevo parlare agli altri della comunità? Come potevate accettare che le nostre scelte, dagli studi alle frequentazioni, dovessero passare il vaglio della comunità? Quale era la ragione dietro la volontà di affidarsi e rinunciare alla propria libertà di scelta e di autodeterminazione?”: sollecitate dalla sua insistenza, emergono a poco a poco le modalità settarie della comunità, che esercita una forma di controllo su qualunque aspetto della vita. “O lo si condivide nella totalità, o si viene presi per folli”, dice sua madre dopo aver richiesto un momento di pausa, scossa dalle domande di sua figlia. Eppure, lontana dal condividere, la regista riesce a mantenere una posizione limpida e mai giudicante, laddove la tensione alla comprensione dell’altro, orizzonte irrealizzabile e utopico, serve più che altro a liberare se stessi dall’ossessivo interrogarsi.
Nel ritratto di un universo femminile piuttosto tradizionale, in cui le donne si dedicano alla preghiera, all’educazione, alla cura, il materno è declinato in diverse forme attraverso tre generazioni: la nonna, capostipite nell’appartenenza alla comunità dal ’58, la madre, che condivide con Chiara l’essersi ribellata in gioventù ai precetti della religione, e la sorella, che sta per sposarsi e fa l’insegnante nella scuola della comunità. Quello che le accomuna nel dialogo cinematografico intessuto dalla regista è il soft-power del ricatto emotivo: alla richiesta di essere accettata, tutte e tre rispondono con l’amore incondizionato – “le porte ti saranno sempre aperte” – accompagnato dalla manifestazione della speranza che lei possa tornare a far parte della comunità. Da qui l’incomprensione, generata intorno al concetto di fede che viene rappresentata come uno strumento ambiguo: da un lato necessario per il raggiungimento di una vera o presunta serenità interiore, pace dello spirito, completezza del vivere; dall’altro fautore di una recinzione invisibile a delimitare un dentro e un fuori, a rischio di escludere chi decide di non abbracciarla.
Il vero incontro, dunque, diventa problematico in virtù del fatto che al di là della fede per la famiglia di Chiara non esiste un orizzonte morale. “Allontanarsi vuol dire soffrire, farsi male, precipitare!”, dice sua madre in uno dei dialoghi più significativi del film, quando le due si confrontano sull’esperienza comune, anche se con esiti opposti, di allontanamento e messa in dubbio della comunità. Forse da principio consapevole di un’impossibile risoluzione, la regista tiene insieme due moti di segno opposto: rivendica, sì, il diritto di aprire un confronto duro e vischioso, perché mai innescato, detonato, gridato; ma al contempo elabora attraverso lo scorrere delle immagini una realtà già in parte somatizzata, senza perdere lo sguardo pieno di grazia e di affettuosa ricerca dell’altro.
Le costruzioni di carta bruciano, le tre donne si preparano al trasferimento, e il passaggio del titolo viene facilitato dalla maturità della regista nel cercare di aprirsi un varco attraverso la camera. Il dolore della separazione convive con l’accettazione amorosa della diversità, nonostante questa continui a generare gradi di lontananza fisica ed emotiva. L’assunto che sembra accompagnare le ultime immagini delle gru che costruiscono le palazzine della comunità e la macchina che si avvicina, segnando il passaggio a una nuova vita della famiglia di Chiara e quindi a una nuova forma di relazione per lei con il suo nucleo di appartenenza, è che il suo sguardo, liberato degli interrogativi non perché si siano trovate risposte tangibili ma per il solo fatto di averli posti, è finalmente in grado di abbracciare la realtà per quella che è.