Chissà chissà domani
Su che cosa metteremo le mani
Presentato alla Quinzaine di Cannes e in programma all’IDFA di Amsterdam, Futura è un comizio giovanile in formato cinematografico, necessario e tagliente, il cui primo e fondamentale punto all’ordine del giorno è appunto il futuro, italiano, nelle sue più sintomatiche declinazioni. È un reportage che aggredisce emotivamente, che scuote coscienze intorpidite e che parla per tutte quelle già lungamente attanagliate, un grido finora sommesso che riverbera in se stesso, come una preghiera davanti a chi lo vede, ma soprattutto a chi lo ascolta.
Tre registi, Pietro Marcello, Alice Rohrwacher e Francesco Munzi, decidono dunque di improvvisarsi commessi viaggiatori per l’Italia. Il viaggio collettivo era cominciato prima della pandemia ma ci prosegue attraverso, esacerbandone gli umori. Il loro sembra essere essenzialmente “un sincero proposito di capire e riferire fedelmente”, citando Pier Paolo Pasolini in Comizi d’Amore, a cui Futura sembra rimandare concettualmente e strutturalmente. Ma a ben vedere, dentro ci si può leggere tutta una serie di indagini cinematografiche italiane post belliche, firmate ad esempio da Soldati o Comencini, delle quali ritroviamo infatti alcuni inserti proprio nel film. Spiritualmente, invece, ricorda una canzone di Lucio Dalla dallo stesso titolo. Dove il film pasoliniano è un verace sondaggio sui gusti sessuali degli italiani degli anni Sessanta, l’omonima canzone è invece il nome della bambina che due innamorati vorrebbero mettere al mondo, mentre attendono che ritorni una luce, che si oda una voce, quelle di un futuro che faccia meno paura.
Il film è un saggio sulla giovinezza italiana, un’ inchiesta dal sapore poetico più che politico. Ogni intervista ha lo stesso incipit, con leggere variazioni: “Per te cos’è il futuro?”. Le risposte le danno gruppi di occhi assetati, ma che intimiditi si rifugiano gli uni in quelli degli altri, insieme a voci vergini eppure sporcate da paure accecanti. Immagini di terre attempate, lente, imper- e iper-scrutabibili allo stesso tempo, scandiscono questo veritiero collage come degli intermezzi. Riprese granulose immortalano gli spicchi di un paese che ha dell’esiziale per i suoi giovani abitanti, i quali confessano a malincuore che il futuro, il loro, non può essere certo lì. L’Italia, allora, è destinata ad essere mera terra di passaggio, una mamma cattiva e “all’antica” dalla quale si scappa una volta cresciuti? Uno dei ragazzi intervistati affermerà eloquentemente che solo chi ha visto l’Italia da lontano può cambiarla. Se è pur vero che è necessario andarsene, forse allora, lo è anche tornare.
Ma Futura non vuol essere una plateale condanna alle inefficienze italiane, tutt’al più una riflessione. Siamo davanti all’esorcismo di paure comuni e che accomunano, spesso taciute, se non tacitate. Quello che ci viene mostrato è “un diario di uno stato d’animo contagiato”, per dirla con le stesse parole scelte per il voice-over di Rohrwacher. Uno stato d’animo dolente, irrequieto, talvolta rassegnato. Il futuro intimidisce perché lo fa già il presente. Lo fa un mondo in cui “non si può più credere in Dio ma solo in se stessi”, come dice uno dei ragazzi. Quello che è emerge non è una tesi paternalistica o scientifica, ma un assunto creato per suggestione: il futuro è territorialmente determinato. Il film è un documento d’archivio consegnato al presente ma concepito per essere riguardato nei decenni a venire. Un’istantanea caleidoscopica di un futuro prossimo che troppo spesso, in bocca agli adolescenti italiani, si fa anteriore.
Chiudi i tuoi occhi non voltarti indietro
Qui tutto il mondo sembra fatto di vetro