Lui si prepara come un pugile: accappatoio, salto della corda, aggressività sfrontata, esibita per/contro il pubblico. Vuole “ucciderli”, stenderli al tappeto con un colpo da KO. Lei cattura tutte le sofferenze del mondo sul palcoscenico: canta, danza e infine si accascia esanime. Lui (li) uccide, lei muore (per loro). Yin e yang? L’eterna lotta tra masculin e féminin? Anche, forse, o molto di più.
Annette dura 141 minuti e non è mancato chi ha trovato il coraggio di proferire il più antico adagio del critico impigrito: troppo lungo, taglierei qui, taglierei là. Può essere troppo lunga un’opera in cui l’autore prova a riflettere su se stesso e sulla propria tragica vita, sul rapporto tra generi e sessi in questi curiosi e poco ruggenti anni 20, sul senso del cinema oggi e sull’impossibilità di una coppia di superare l’egocentrismo di due monadi frettolosamente giustapposte? Troppo corto, semmai. Uno sforzo di sintesi (e analisi) mirabile, come solo l’incontro tra le sensibilità di Léos Carax e dei fratelli Sparks, eterni ed eternamente sottovalutati cantori del dietro le quinte, può generare.
Si comincia in musica, tra le frequenze disturbate di uno studio di registrazione, con un effetto di lacerazione audiovisiva, che ricorda molto la stazione radio isolata del New Mexico nuclearizzato dell’ultimo Twin Peaks. Un regista si mette in scena e dà il là a un cast che chiarisce la natura fittizia di quel che seguirà, per poi ribadire a più riprese – la bambola al posto della bambina, la retroproiezione delle scene ambientate sull’oceano – la natura mendace della rappresentazione.
L’artista d’altronde mente, per definizione e per dovere più che per piacere. Si dedica ossessivamente a qualcosa di improduttivo, da una prospettiva tecno-capitalista: a un nulla molto pretenzioso. Ma, così facendo, entra in contatto con ciò che agli altri, moral majority, è precluso. “Abisso” incluso.
L’artista è iper-percettivo e al contempo ipovedente. Al pari della psicostoria di Asimov, avvista i presagi del futuro come un falco, ma brancola nel buio di fronte a quel che è prossimo. Ha il dono di vaticinare come una sibilla e la colpa di non saperne fare tesoro nella ordinarietà della vita reale. In questo è forse artista anche Henry McHenry, destinato a trasfigurare progressivamente in Léos Carax, fino alla mutazione fenotipica definitiva dell’epilogo (ma quella voglia caraxianamente rossosangue che cresce sul volto di Henry ci aiuta a distinguerlo come un cattivo doppelganger o a ribadirne la reale natura?).
Per incarnare la mascolinità tossica Carax sceglie la più cinica – e idonea al turbocapitalismo – delle professioni artistiche odierne: lo standup comedian, evoluzione terminale del giullare di corte, bullone svitato dell’ingranaggio, ossia la figura più funzionale al mantenimento del potere del monarca. Una incarnazione della sterilità del cinismo odierno, che nasconde sotto uno sprezzante humour da meme istantaneo l’incapacità, o la scarsa volontà, di produrre un’idea o un ideale che sia construens. Ma Henry non è un comico qualsiasi, né un Louis C.K. o un Chris Rock (ringraziato nei titoli di coda insieme a Bill Burr) che canalizza il proprio rancore nello show. Henry ha scrutato l’Abisso. Da allora non è più lo stesso. Il coro #MeToo a sei voci che processa Henry manca il bersaglio, o meglio lo fraintende. Perché lo scontro in ultima istanza non è tra lui e lei, tra Henry e Ann. È tra Henry e il mondo. Tra chi crede che essere artista significhi esibire la propria superiorità anziché cercare empatia e gli altri, quel pubblico che Henry odia, non comprende, disprezza. “Tutti voi mi giudicate colpevole” – è il primo pensiero di Henry dopo l’interrogatorio della polizia. La costante attenzione al parere altrui procede in parallelo al totale disprezzo del medesimo, secondo quel principio di contraddittorietà che i social network hanno eretto a pietra basale delle nostre vite.
Forse, in conclusione, Carax sembra dirci che dare troppa importanza all’arte, o a quella versione popular di arte che amiamo chiamare tale, è solo un modo per dare troppa importanza a noi stessi. È nella vanità e nell’egocentrismo, ostinatamente alimentate da un sistema economico e valoriale autodistruttivo, che si annida il male del secolo: una sistematica distorsione della realtà dovuta a una percezione soggettiva e vagamente mitomane. Non c’è una cura né un’alternativa, se non quella di evitare di scrutare nell’Abisso. O di guardarsi troppo allo specchio.