Da una fitta nebbia emergono delle figure che avanzano verso la camera, solo dopo un minuto è chiaro che stiamo guardando dei cavalli che si muovono con diffidenza, ma il resto del paesaggio rimane scontornato da geometrie quasi surreali. Sullo sfondo si intravedono quelle che a uno sguardo iniziale sembrano essere tre voragini sospese nel vuoto, poi quasi delle vele di tre navi, fino a quando il tutto si compone nella visione di un vecchio e fatiscente cascinale con tre enormi finestroni. I cavalli nel frattempo si sono fermati.
Un campo lunghissimo scontorna i confini di una non specificata città siciliana, il cielo è sereno, il mare è calmo, i monti circondano il piccolo golfo, una nave merci bianca e rossa è ferma vicino agli attracchi. L’immobilismo della scena viene interrotto da un puntino nero che compare dal nulla e si innalza nel cielo, è un elicottero. L’inquadratura fissa si converte in una panoramica e lo segue da lontano, da lontanissimo. Dopo trenta secondi siamo su un incendio di proporzioni spaventose, le cui fiamme stanno lambendo un bosco. Il minuscolo elicottero getta in mezzo al fuoco quello che per lo spettatore è un fragile e inutile filo d’acqua. Successivamente in quell’incendio un vigile del fuoco perderà la vita, ma questo è un fuori campo.
L’immagine in Tardo Agosto, di Federico Cammarata e Filippo Foscarini, presentato nel Concorso Italiano del 62° Festival dei Popoli, non è un’entità che soprassiede la realtà, ma diviene un’estensione messa da quest’ultima costantemente alla prova, ed è nel fallire nella ricerca della sua onnicomprensività che qui il cinema trova il suo più straordinario compimento.
Attraverso un lavoro impostato prima sul suono e solo successivamente sulla composizione dell’inquadratura, i due registi scelgono volontariamente di farsi sorprendere da ciò che la durata di un paesaggio abituale può infliggere a un astante, nei momenti più inaspettati di una lunga attesa.
Come scrive Handke in Canto alla Durata:
Inutile forse dire
che la durata non nasce
dalle catastrofi di ogni giorno,
dal ripetersi delle contrarietà,
dal riaccendersi di nuovi conflitti,
dal conteggio delle vittime.
Il treno in ritardo come al solito,
l’auto che di nuovo ti schizza addosso
lo sporco di una pozzanghera,
il vigile che col dito ti fa cenno
dall’altro lato della strada, uno con i baffi
(non quello ben rasato di ieri),
la morchella che ogni anno rispunta
in un angolo diverso nel folto del giardino,
il cane del vicino che ogni mattina ti ringhia contro,
i geloni dei bambini che ogni inverno
tornano a pizzicare,
quel sogno terrorizzante sempre uguale
di perdere la donna amata,
l’eterno nostro sentirci improvvisamente estranei
fra un respiro e l’altro,
lo squallore del ritorno nel tuo paese
dopo i tuoi viaggi di esplorazione del mondo,
quelle miriadi di morti anticipate
di notte prima del canto degli uccelli,
ogni giorno la radio che racconta un attentato,
ogni giorno uno scolaro investito,
ogni giorno gli sguardi cattivi dello sconosciuto:
è vero che tutto questo non passa
– non passerà mai, non finirà mai –,
ma non ha la forza della durata,
non emana il calore della durata,
non dà il conforto della durata.
Sebbene questo film nasca inequivocabilmente dall’attesa, il suo punto d’arrivo non sembra essere il senso della durata, il dono di qualcosa di aspettato nell’inaspettato. Cosa cercano allora Filippo e Federico nel loro scandaglio delle terre siciliane alla fine dell’estate? Cosa vogliono trovare? Forse la risposta si nasconde ancora dietro un altro velo di foschia bianca, superato il quale un piccolo gregge si allontana, mentre una pecorella evidentemente appena nata grida verso gli adulti qualcosa che gli adulti non sembrano volerle dare, qualcosa che manca. O forse sempre questa risposta la possiamo sentire sussurrata negli audio disturbati delle telefonate tra un bracciante emigrato nelle brulle campagne dopo Palermo e la moglie rimasta in Africa, quando una domanda posta non ricordo da chi dei due (ma non è importante a questo punto) rimane senza risposta, forse inascoltata: “Quindi sei felice?”
Sì, forse la risposta sta proprio qui, in quello che cambia e si deteriora, anche nella bellezza.
Sì, forse la risposta sta nell’assenza, di quello che non resta mai.