In una scena di Lettera da una sconosciuta di Max Ophüls un uomo e una donna presi da una suggestione amorosa entrano in un’attrazione, un diorama del Prater, e assistono, seduti su un finto vagone ferroviario, all’illusione scenica di un paesaggio bidimensionale che prende vita attraverso il movimento. È cinema. La coppia dialoga a proposito del paesaggio, che offre visioni di un fondo indistinto nel suo spostamento regolare: il vagone dell’attrazione funziona all’esatto opposto di un vero vagone, perché rimane fermo mentre il telo che manda l’immagine si muove grazie a un meccanismo. Mentre in un viaggio in treno il paesaggio è immobile e il vagone in movimento, nell’attrazione il paesaggio è in movimento e il vagone immobile: in entrambi i casi però lo spettatore è fermo, seduto sulla sua poltrona mentre assiste all’illusione di movimento di ciò che è immobile. In questo schema si presentano tre elementi, più precisamente il movimento, l’immobile e lo sguardo dello spettatore, che articola sinteticamente i poli opposti e contradditori in visione. First Time, mediometraggio diretto da Nicolaas Schmidt e presentato al 62esimo Festival dei Popoli, dispiega più o meno consciamente questi tre elementi per dire qualcosa di diverso rispetto al melodramma ophülsiano; esso riconosce infatti nella dinamica cinematica del treno – oggetto che è straordinario catalizzatore di visioni – un mezzo adeguato per aggiornare la riflessione sul desiderio umano nell’epoca della sua formattazione sensoriale da parte del linguaggio mercantile.
Il film – per la maggior parte costituito da una sola inquadratura in piano sequenza del profilo di due ragazzi seduti in treno uno di fronte all’altro – si apre non a caso con un collage di due spot della Coca Cola, con protagoniste varie coppie di giovani nell’attimo dell’innamoramento spassionato. Come moltissimo marketing emozionale, gli spot bombardano lo spettatore con un montaggio di immagini che si strutturano secondo una continua dialettica di promessa/soddisfazione di desiderio: sguardi intensi diretti da ragazzi a ragazze e viceversa si caricano per ellissi continue fino a esplodere in una liberatoria danza di abbracci e baci che suggellano tutte le proiezioni prima prodotte. La soddisfazione non segue direttamente dalla promessa ma da una fase intermedia di conflitto (identificabile nella timida avance verso l’altro sesso) interpolato per rendere più intensa e autentica la soddisfazione, che sopravviene negli spot solo tramite il medium della Coca Cola. Mentre l’immagine televisiva si fa forte di raffinatissimi processi di estetizzazione del sentire che si interessano della costitutiva essenza dell’essere umano (il desiderare) per manipolare una domanda economica, l’immagine cinematografica cosa fa, come opera? Può dire qualcosa contro questi processi che riguardano la quotidianità della nostra sensazione?
Anche l’immagine cinematografica è potente strumento di elaborazione della sensazione estetica: intensifica la sensazione come tale, intensifica soprattutto il senso della vista. Un certo tipo di cinema addirittura si spoglia dalle norme narrative per accentuare il valore dell’immagine proprio come catalizzatore di intensificate operazione scopiche, al fine di riconoscere il valore che la vista ha in se stessa come vista, come risposta sensoriale. È il caso di First Time, che risponde al montaggio pubblicitario con la lunga ed estenuante inquadratura dei due ragazzi seduti di profilo: in questa inquadratura il meccanismo di promessa della soddisfazione è ribaltata con ironia (rinsaldata da vari riferimenti umoristici all’immaginario eteronormativo Coca Cola) per dire da un lato dell’inganno della formattazione percettiva tentata dal medium economico e dall’altro del potere dell’immagine cinematografica nell’evocazione del desiderio. Il piano sequenza cattura infatti l’unica vera dimensione del sentimento di tensione desiderante, cioè il conflitto, che invece di essere momento transitorio costituisce il viaggio vero e proprio. Il viaggio compiuto dai due ragazzi che per tutta la durata del tragitto cercano di elaborare (con tenace timidezza) un modo di comunicare il proprio desiderio senza mai riuscire davvero; un viaggio che sembra muoversi, dirigersi da qualche parte e invece è inchiodato nell’immobilità, essendo perfettamente circolare, chiuso nella propria illusione di movimento.
L’immagine cinematografica è, come illustra già la geniale scena di Ophüls, incredibile sforzo illusorio prodotto per mobilitare ciò che è in realtà immobile, alla maniera di un viaggio in treno in cui ci si muove solo guardando, senza spostarsi, godendo del meccanismo di visione per cui cose immobili sembrano transitare. Il cinema a differenza dell’immagine televisiva o dell’immagine informatica (per cui basta pochissimo per essere soddisfatti) produce un importante conflitto senza risoluzione, senza soddisfazione, in cui la soddisfazione stessa è rimandata e la sensazione assume valore in sé, non in tensione di altro. La trasformazione dello sguardo da mezzo finalizzato a fine in se stesso che risulta dall’inquadratura di First Time non deve però far intendere che il punto di vista di chi guarda sia l’unica cosa che conti: l’inquadratura in questione piuttosto investe lo sguardo di una responsabilità, di una consapevolezza che riguarda non una presunta superiorità ma lo stato di fragilità sensoriale a cui si è legati nell’esperienza del mondo. È proprio attraverso quella sensazione percorribile in tutta la sua traumatica estensione che tutto filtra per un attimo (i vari monocromi che intervallano le prime sequenze del film sembrano una soggettiva di occhi chiusi in cui tutta la luce è fuori e preme attraverso la pelle) prima di scomparire in un baluginio soffuso, rivelandosi patrimonio difficile da elaborare (in quella sintesi spettatoriale che media tra movimento e immobile, apparizione e scomparsa), ma impossibile da ignorare.