«Solo et pensoso i piú deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.(…)»
Giovanni Cioni è toscano e il suo vagabondare sui terreni desolati del sentiero che sovrasta Mentone immediatamente richiama alla memoria un suo celebre conterraneo, anche lui dedito a riflessioni fondamentali sulla vita e sulla morte. Ma se Petrarca scende direttamente sul terreno della trascendenza, il cineasta toscano sceglie invece di restare nell’immanenza, raccontando una storia che pone a confronto due inizi secolo, quello precedente e quello attuale.
Il protagonista della sua storia, narrata come nelle fiabe («c’era una volta»), è il dottor Voronoff, che nei primi decenni del secolo scorso fu una celebrità mondiale, in quanto chirurgo che aveva trovato un possibile elisir di lunga vita, impiantando i testicoli delle scimmie sui corpi umani.
Il cineasta lo segue attraverso lo sguardo che altri posarono su di lui, attraverso le sue parole, filtrate da un cinema del reale allora agli inizi, ma soprattutto attraverso le creazioni dell’immaginario scatenate dai suoi esperimenti mirati al ringiovanimento maschile. Scorrono così, in un turbine visionario, le immagini di cinegiornali d’epoca o di celebri film di genere, come Cabiria di Giovanni Pastrone, Femmine folli di Eric Von Stroheim, L’isola delle anime perdute di Erle C. Kenton, King Kong di Ernest B. Schoesack e Merian C. Cooper, Captive Wild Woman di Edward Dmytryk e The White Gorilla di Harry L. Fraser. A esse si alternano quelle del luogo in cui visse e creò le sue sperimentazioni, una villa alta sopra una roccia a picco sulla scogliera, a cavallo della frontiera fra Italia e Francia. E soprattutto si alternano quelle del sentiero cosiddetto «della morte», che allora e adesso è uno dei cammini seguiti dai migranti privi di documenti o di visto per l’entrata in un paese straniero.
Tutte queste immagini, di allora o di adesso, sono accompagnate dalla parola fluente e visionaria di Cioni, che, come un «passeur», un osservatore filosofo che trasmette il suo pensiero senza imporlo come un dogma, si delega il compito di aprire delle porte: porte della percezione fisica, ma anche porte dell’immaginario e della trascendenza, porte del corpo e dell’anima. Porte di una consapevolezza politica e umana spesso assenti nel mondo di oggi. L’insistenza sull’alternanza della didascalia «c’era una volta a quei tempi» non può che rimandare all’oggi, come fa il cineasta nel finale del suo lavoro.
Il cinema di Cioni è un cinema di parola, come già detto altre volte. Nei suoi film la parola unisce il suono che proviene dalle cavità profonde del corpo al senso che quel suono ha in rapporto alla rappresentazione sociale del mondo. Articolare la parola secondo quel sistema complesso che è la lingua porta alla creazione di un discorso o di una storia. Quel discorso, che racconta la speranza e la memoria, è fatto dall’uomo per l’uomo. Parlare significa dunque comunicare l’umano. Ed è proprio l’umano a interessare il cineasta toscano, il sapere che la vita è fatta di spazi, tempi e incontri; e di emozioni, che nascono dagli incroci fra questi tre elementi. Il cinema di Cioni segue lo stesso percorso.
«C’era una volta a quei tempi, ai nostri tempi…»
Mare e cielo, gracidio di rane…Le rane parlano coi sottotitoli.
Il cineasta lascia il tempo affinché la parola prenda posto nella testa degli spettatori. L’immagine è quella di uno sguardo indagatore, sorpreso e ferito dall’evidenza delle cose.
La vita di Voronoff prende corpo, come in un libro di cui lui fu la fonte di ispirazione: Cuore di cane di Mikhail Bulgakov. E dietro a essa risuona la stessa, eterna domanda: «La morte è inevitabile?» Si può evitare (o rimandare a più tardi) attraverso un’operazione chirurgica o traversando una frontiera?
Sono domande che la gente sembra non porsi, almeno a guardare i filmini familiari di vacanze al mare che Cioni ci propone muti. Come gli spettri nel fulminante romanzo di Adolfo Bioy Casares, L’invenzione di Morel, non vedono chi li guarda. Né vedono chi cerca di attraversare la frontiera per sfuggire alla morte. Ma, la morte è inevitabile? Non si sa, anche perché l’uomo può capire solo la vita, in quanto è stato creato per questo. E mentre le rane cantano l’eterna canzone del mondo, mentre i passi sul sentiero della morte si fanno più tardi e lenti, mentre le immagini corrono parallele e in sintonia o talvolta si scontrano nel fragore del silenzio, la parola di Cioni lascia lo spazio al respiro: respiro della mente, respiro degli occhi.
Il cineasta non dice allo spettatore dove deve guardare, non suggerisce soluzioni, non propone testimonianze che spiegano tutto, come avviene nella moltitudine di cattivo documentario circolante. Si tuffa invece nella folla festiva di Sanremo. Dove non ci si vede. Dove ancora circolano immagini di spettri. Dove King Kong si ribella. E infine il virus…qui e altrove.
La villa di Voronoff che chiude il film è come la siepe leopardiana dell’Infinito. Dietro ad essa Cioni, addolorato, saluta il mondo, come un naufrago aggrappato all’illusione del ricordo. In silenzio…
«(…)Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.»