“Il tratto essenziale dello zen consiste nel fatto che la verità stessa deve esser lasciata porsi in opera in un respiro, in modo del tutto immediato e audace. Lo zen non si muove in modo discorsivo, ma a salti; non da una molteplicità ad un’altra molteplicità o da una differenza ad un’altra differenza, bensì dalla molteplicità all’Uno, dalla differenza alla non differenza. In breve, la via dello zen conduce sempre dal complicato al semplice, dal formale al senza forma. Di qui viene determinata anche l’arte del pennello.”
Shobuaiki.it, Arte nel Buddhismo Zen
Subito, il paesaggio. Alcuni cervi abitano sereni un bosco al calar della sera. Una donna seduta ne disegna “schizzi e bozzetti”, come indica la didascalia che appare ancor prima del titolo, già a indicare la predisposizione estetica adottata da Jean-Claude Rousseau nel suo ultimo film, Un monde flottant, presentato quest’anno all’interno della selezione francese di Cinéma du Réel.
Tassello più recente di una “trilogia giapponese” composta dai precedenti Si loin, si proche e Arrière-saison, con il titolo cita direttamente i Racconti del mondo fluttuante di Asai Ryōi, attraverso i quali, nel 1666, venne sancita la differenza nella concezione del termine tra ukiyo buddhista e ukiyo del periodo Edo, il primo più legato a una visione spirituale del mondo e dell’aldilà, il secondo dedito all’hic et nunc e ai piaceri della vita terrena, dal quale si generò l’ukiyo-e, la famosa stampa artistica giapponese della quale Katsushika Hokusai è il più noto esponente. Il passaggio di accezione di ukiyo riguardava non solo un mutamento sociale ed epicureo della quotidianità, ma anche e soprattutto lo sguardo filosofico adottato nei confronti di quel quotidiano che da trascendente si converte in immanente.
E di immanente è imbevuta l’essenza del cinema de “il più giapponese di tutti i registi”, Yasujirō Ozu, figura verso la quale Rousseau attua un processo di avvicinamento nella ricerca di volti (Setsuko Hara in Si loin, si proche), luoghi e momenti di vita ordinaria. I soggetti ritratti, a volte esseri umani e altre cervi, che come guardiani silenti ripetutamente tornano durante il film, appaiono sospesi in una fissità che scardina spazio e tempo, così come avviene nella stanza d’albergo che funge da perno per la struttura del film, all’interno della quale Rousseau e il suo amico Daisuke Akasaka, professore e critico cinematografico, si scambiano in continuazione in un gioco di visioni tra chi crea e chi guarda. D’un tratto però, un evento: una piccola messa in scena simula un terremoto facendo uso anche di alcune riprese filmate da un televisore. Torna la calma ma lo status quo viene nuovamente interrotto da un colpo di campana che risuona intenso quanto il sisma. Brevi scissioni come quelle descritte da Paul Schrader nel suo Il Trascendente nel Cinema. Ozu, Bresson, Dreyer, che ci proiettano poi nella stasi di un giardino zen o di una veduta del monte Fuji.
Quello di Rousseau è un cinema pacato e meditativo, ma capace anche di strappi inattesi, che sbilanciano l’occhio dello spettatore dalla galleria di presenze che corre parallela all’intero impianto drammaturgico dell’opera. L’effetto diapositiva è accentuato dalla scelta di staccare quasi sempre a nero per separare un quadro dall’altro, come a simulare la fine di un rullo di pellicola e l’inizio del successivo. L’accostamento a Ozu è formale e linguistico. L’avversione del giapponese per la dissolvenza incrociata e per il CinemaScope, dal quale prese un distacco netto rifiutandosi di “guardare il mondo attraverso la feritoia della cassetta delle lettere”, prosegue seppur rimodellata nella poetica di Rousseau, che in un’intervista per MUBI ha dichiarato:
«What I found out while making these films is that if there is a way to find a noble composition on 16:9, it is by thinking of it as 4:3. Finding the 4:3 in the interior of it. […] I think this is what we should look for when shooting films on this widened format, it is of course not a new thing. We can feel an image’s justness, its nobility, on 16:9, only if it contains a 4:3 composition inside of it.»
Subito, il paesaggio. E se qualcuno lo disegna, qualcun altro ancora più dietro, il regista, ce lo restituisce in una mise en abyme densissima nella sua semplicità e sconvolgente per la naturalezza con la quale riesce a essere al contempo film-saggio e teoria della realtà.
“Il pennello, diventato uno con il paesaggio, non permetterebbe quella distanza che renderebbe possibile un vedere prospettivistico, oggettivante. E dove una regione sconfinata si fonde con la punta del pennello, ogni tratto di pennello è l’intero paesaggio.”
Byung-Chul Han, Filosofia del Buddhismo Zen