Cosa sarebbe di noi se perdessimo le facoltà della coscienza, se fossimo solo corpo? Sullo sfondo di un movimento spesso apparente quale è la vita, la realtà che spesso viene taciuta è che nel mondo siamo solo di passaggio, incaricati di portare significato nelle vite degli altri. Se il tempo della vita è un tempo di transizione, allora non è un caso che Supernova, scritto e diretto da Harry Macqueen (Hinterland, 2014), inizi proprio da un viaggio, un percorso on the road: qui però la strada e il paesaggio sono solo sfondi che si alternano inesorabili, funzionali a dare respiro a quelle immagini che incastonano sentimenti, sguardi, gesti.
Sam, pianista a fine carriera, e Tusker, scrittore, sono compagni di vita da molto tempo. Come ogni essere vivente (l’universalità è fondamentale in un film che si apre con l’immagine di un cielo stellato e ha per protagonisti due appassionati di astronomia), anche Tusker è un passeggero, un’anima in viaggio, alla ricerca di un senso da dare a se stesso oltre la demenza precoce che gli viene diagnosticata. Nel viaggio tra luoghi e persone del loro passato che i due intraprendono, Tusker rifiuta di prendere le pastiglie, rifiuta di affidarsi alla tecnologia, si ribella alle attenzioni del compagno: rifiuta, insomma, l’aiuto dell’altro. Chi sono i protagonisti e dove stanno andando non ci è dato saperlo: il film si dispiega lentamente e prende forma con il progredire dei dialoghi, dei silenzi, di ricordi e luoghi. Le parole, prima stabili e ben definite, si trasformano in silenzi mostrando la malattia per quella che è: un grumo di pensieri che si perdono e roteano senza trovare fissa dimora. Il peso dei dialoghi si affievolisce, lasciando parlare il vuoto. Tusker non riesce più a scrivere, fatica a leggere e ben presto non saprà parlare, eppure Sam non si arrende, lo stringe, lo bacia, lo insegue. Quella tra Sam e Tusker è una storia d’amore, ma anche altro, una connessione profonda che sfugge al tatto. Perché l’Alzheimer è anche una questione fisica: quella penna che non si riesce ad impugnare, quei bottoni che non riusciamo a chiudere, quel tocco che vorremmo sentire su di noi.
Cosa ne sarà dei ricordi, dei momenti, degli sguardi? Cosa sarà del corpo, certo, ma soprattutto di una mente che come una macchina da presa registra, incasella e stratifica i significati della propria esistenza spettacolare? E, se noi siamo corpi-macchine che si impressionano dell’esistenza, è possibile riscoprire il nostro significato nello sguardo dell’altro? Macqueen si tiene stretti i suoi protagonisti (non a caso Colin Firth e Stanley Tucci reggono tutto l’impianto drammatico) e li chiude in primi piani disperati, arresi, quasi soffocanti, focalizzandosi su quei corpi che si abbracciano, anzi, si aggrappano l’un l’altro, prima di diventare nulla, silenzio, morte. Allora il film si sposta anche sull’idea del tempo. Se è vero che il tempo della vita coincide con il tempo della memoria, il pensiero di non sapere più chi siamo, di diventare un io vuoto, un corpo non senziente, ci blocca e destabilizza.
Allungare la vita non è la soluzione, Tusker lo sa. Che senso ha avere più tempo se non si sa abitarlo? Un tempo esteso, pieno di vuoto e privo di soddisfazioni, non è forse un tempo infernale? Macqueen sembra redarguirci sulla disattenzione: di un momento, di una vita, addirittura di un’epoca. Ed è proprio qui che sta la forza del film che non si perde in assolutismi sulla malattia, non la mostra nella sua dirompente catastrofe, ma la riflette sui protagonisti, esprimendo una riflessione precisa: perdere una persona, spesso significa anche non sapere chi è, pur avendola avuto davanti per lunghi giorni (in presenza della malattia, ma anche prima di essa).
Questo non riconoscersi imminente (tra Sam e Tusker, ma anche tra tutti gli esseri umani) abita il centro del film. Se il corpo privato della mente perde tutto il suo significato e diventa feticcio inafferrabile, ciò che resta è l’altro. Un altro che in Supernova è il compagno di vita, ma potrebbe essere chiunque: un fratello, una sorella, un amico. «Non moriremo per mancanza di meraviglie, ma per mancanza di meraviglia», afferma Tusker in un momento di brillante lucidità. Il meravigliarsi qui sta tutto nell’atto del guardare, lucidamente. È quell’attenzione “sveglia” verso l’altro che spesso si affievolisce, indaffarati come siamo ad inseguire il consumo della vita quotidiana, quando, invece, basterebbe fermarsi e imparare e riconoscersi.