È possibile, per una volta, che le cose siano davvero come sembrano. È possibile cioè che Actual People sia un film d’esordio di una regista giovane, Kit Zauhar, e come come altri film d’esordio di altri registi giovani abbia in sé un certo coté generazionale, qualcosa che se non è proprio un manifesto è quanto meno baldanza, voglia di affermare un proprio linguaggio e rivendicare temi nuovi.
Giocano a favore di questa ipotesi il mimetismo spigliato dei dialoghi, l’impalcatura del racconto, che coniuga impressionismo da tranche de vie ed elementi romantici, l’ambientazione universitaria e newyorchese, e financo alcuni elementi di produzione (la presenza di Zosia Mamet, ex Girls, come produttrice esecutiva). Gioca a favore anche il fatto che Zauhar dichiara di aver voluto, con Actual People, aggiungere al canone del mumblecore il punto di vista di un’americana di origini asiatiche, e dimostrare anche, così facendo, la vitalità di un certo modo di fare cinema, giovane e spontaneo.
Senonché, arrivati a un certo punto, l’ipotesi si inceppa. Quali sono, a esempio, i nuovi temi che si accampano qui? Riley è una giovane donna in cerca di sé. L’ingresso nell’età adulta, la responsabilità imminente di diventare, come accenna il titolo, una ‘persona vera’, fanno da sfondo alle sue ultime settimane da studentessa universitaria: un carosello di serate e festicciole che, sullo schermo, si srotolano come una crisi esistenziale a scartamento ridotto.
Lasciamo da parte l’assunto, diffuso in ambito angloamericano, che le università debbano essere dei giardini cintati del sapere e non, come ancora qualcuno pensa in Europa, delle piazze aperte. Diventa presto ovvio che Riley non ha progetti per il futuro, né un senso chiaro di cosa fare della sua vita. A prevalere in questo caso però, più che gioiosa liberazione e senso di scoperta, è un’ansia sottile, un senso di spaesamento che (a tratti) sfocia nella crisi di realtà.
Si fa strada, a questo punto, un’altra chiave di lettura di cui questo aspetto della crisi di realtà è fondamento.
Lungi dal conferire un quoziente d’autenticità in più alle dinamiche del genere, l’aspetto etnico-identitario cui accenna la regista si traduce, nel film, in un vero e proprio MacGuffin. La protagonista, figlia di padre britannico e madre asiatica, si invaghisce di un ragazzo di origini simili. I due vanno a letto insieme, e Riley passa gran parte del film proiettando sull’incontro la speranza di una relazione. Quando finalmente avviene, il secondo incontro tra i due sconfessa ogni illusione di intimità segreta: le origini comuni non portano a niente, non c’è contatto umano né riconoscimento reciproco, e la conversazione resta abbozzata, abortiva, superficiale e penosa.
Quanto alla spontaneità e all’immediatezza, la crisi di realtà che sottende al film non lascia spazio né all’una né all’altra. Ciò risulta particolarmente evidente nel linguaggio. L’apparente mimetismo dei dialoghi si rivela essere, come in certo cinema modernista del dopoguerra, pura performanza. Spesso ebbri o drogati, i personaggi di Actual People usano parole che non li esprimono, col sospetto che forse non ci sia nulla da esprimere. L’incidente rivelatore, qui, è uno scontro tra Riley e il suo coinquilino, nel quale quest’ultimo, dopo averle dato lo sfratto, accenna a scusarsi con una frase fatta, per poi notare di aver iniziato la frase di riflesso, solo perché suonava come ‘qualcosa che la gente dice in questi casi’.
L’aspetto etnico-identitario è una sciarada; l’immediatezza comunicativa dei dialoghi è smentita. Di fronte a tutto questo, l’impressione è che il film finisca non tanto per allargare le maglie rappresentative del mumblecore, quanto per svuotarne gli stilemi naturalisti, fino ad arrivare alla crisi di realtà di cui accennavo sopra. Lo stesso richiamo al mumblecore del resto è sottilmente anacronistico: uno stile immediato e generazionale, sì, ma di una generazione già passata. I personaggi di Actual People non usano cellulari. Tanto la spigliatezza formale del film quanto il tema della ricerca identitaria si rivelano insomma essere gusci vuoti: il risultato finale è sottilmente surreale, disperato e quasi kafkiano.
Una volta messa a fuoco questa chiave di lettura, i pezzi iniziano a combaciare. Riley non sa cosa fare della sua vita perché non sa leggersi dentro, e non sa leggersi dentro perché le etichette e i linguaggi che la circondano sono vuoti. La retorica etnico-identitaria la porta in un vicolo cieco. Gli studi umanistici e filosofici non offrono alcun ancoraggio né introspezione. Gli apparati sociali e istituzionali (l’università, le sedute di analisi con la psicologa) restano cortesi e distanti. Forse la scelta formale più spietata è quella con cui, a intervalli regolari, Zauhar frammenta il quadro per inserire spezzoni di filmati video, modellati in modo da apparire come segmenti della vita digitale di questi personaggi. Finestre sull’adolescenza e sull’interiorità, ma finestre cieche: scene di un passato che non offre fondamenta perché alienato, trasformato in contenuto prima ancora che possa diventare memoria.
Questi intermezzi sono insomma il controcampo tragico che completa la struttura formale e tematica del film. Da un lato, la mediazione digitale continua, una mediazione che annienta la possibilità di conoscersi e capirsi. Dall’altro, il richiamo disperato all’immediatezza perduta di un genere, il mumblecore, ormai impossibile da ricreare. Il risultato è un animale strano: un film meno autentico di quello che sembra, ma che paradossalmente non può far altro che sembrare autentico.