Presentato alla 78ª Mostra del Cinema di Venezia, Il buco segna il ritorno di Michelangelo Frammartino al grande pubblico e alla sala cinematografica (la distribuzione ha anticipato l’uscita al 23 settembre), a undici anni dal celebrato Le quattro volte, che ancora oggi occupa un ruolo di svolta nella recente parabola del cinema italiano di ricerca. Nel mezzo, la videoinstallazione Alberi (2013) e una difficile traversia produttiva che lo aveva costretto ad abbandonare il progetto di lungometraggio a cui stava lavorando. Oggi lo ritroviamo insieme alla co-sceneggiatrice Giovanna Giuliani, soddisfatto per il Premio Speciale della Giuria al Festival e sincero nell’ammettere di sentirsi in qualche modo sollevato dall’anteprima veneziana, sempre rischiosa per un cinema che, è il caso di dirlo, allenta i vincoli narrativi per esplorare le tensioni spesso dimenticate del fuori campo e la natura stessa delle immagini.
Michelangelo Frammartino: Avevo paura che a causa del nostro film potessimo poi essere presi in giro! Il nostro è un cinema rigoroso e temevamo di annoiare il pubblico. Invece mi pare ci sia stata un’ottima risposta, sinceramente non ce l’aspettavamo. Ci siamo stupiti per come la sala si è lasciata immergere all’interno dello strano oggetto che gli stavamo presentando.
Filmidee: Come mai lo chiami oggetto? Ti riferisci all’aspetto ibrido del tuo lavoro?
MF: Se osserviamo il mio percorso finora, le videoinstallazioni e i miei film, ho sempre inteso il cinema come un oggetto ibrido. Sicuramente dipende molto dalla mia formazione, dato che ai tempi ho studiato architettura alla Statale di Milano. Ho avuto grandi maestri che mi hanno insegnato ad avere una concezione diversa dello sguardo sulla realtà, strutturando la mia personale capacità di concepire lo spazio e gli elementi che lo abitano. E poi c’è lo sport, sono un ciclista e un grande camminatore. Sono tutte competenze che plasmano il mio stile di cinema, certamente fuori dai soliti canoni didattici e spettacolari. Diciamo che senza l’esercizio fisico costante e un’articolata concezione dello spazio non sarei mai arrivato a girare un film nelle grotte, completamente legato dalle imbragature.
Fi: Raccontaci da dove siete partiti. Ci sembra che nel vostro film esistano due ceppi principali: quello storico, se vogliamo più narrativo, intrecciato ad uno più libero e performativo.
MF: Infatti è così, ma le due parti sono intrecciate fra loro. Diciamo che il presupposto storico rappresenta una periodo di grande trasformazione: siamo nel 1961, in un’Italia fortemente segnata dal boom economico e lacerata dalla sempre più netta scissione fra Nord e Sud. Una scena in bianco e nero nella prima parte del film mostra l’ascesa in cima al Pirellone del conduttore e del suo cameraman, filtrata dallo schermo luminoso davanti agli occhi dei telespettatori. Si tratta di una suggestione inedita: l’euforia del Nord di fronte alla visione attonita del Sud, che ha creato uno scompenso più temporale che spaziale. Quelli sono stati gli anni della grande migrazione, io stesso sono figlio di genitori calabresi venuti a Milano proprio in quel periodo. Una cosa che mi ha sempre colpito dai racconti dei miei, è che a confronto di tutte le storie vissute negli anni precedenti, dagli anni ’60 c’è come… un buco. Quasi un vuoto di memoria. Credo che il miglioramento del benessere economico nel nostro paese coincida anche con l’appiattimento della sua identità, di uno svuotamento collettivo. La televisione e tutto il sistema mediatico hanno avuto per un periodo il compito di alfabetizzare i cittadini, ma allo stesso tempo hanno letteralmente sostituito, raso al suolo un intero ecosistema culturale che poi è quello che sto cercando di raccontare nei miei film. Da lì, l’interesse per la speleologia e la filosofia che ci sta alla base: in contrasto alla forma “vincente” del capitalismo, quella dello speleologo è una sconfitta premeditata. Non c’è nessuna vetta da raggiungere, nessuna cima da cui sai che potrai dominare il mondo, è tutto il contrario.
Fi: Quindi l’approccio storico, in cui hai voluto mettere in mostra il primo gruppo di speleologi che hanno esplorato l’Abisso del Bifurto, nel Pollino, è un modo per raccontare qualcosa di più profondo?
MF: Il mio non è un cinema della “metafora”, non sono abituato a pensarla così. Anzi, sono fortemente legato alla materia, alle cose tangibili della vita. Giovanna te lo confermerà, ma la scrittura del film è andata avanti durante tutto il periodo delle riprese, giorno dopo giorno. Lei mi ha fatto notare che la narrazione che stavamo costruendo non era progressiva, cioè rinchiusa nella solita logica di causa effetto, ma stratificata in verticale, proprio come la grotta. Certo, avevamo un canovaccio, ma il soggetto non può mai vincolare il film. Mentre esploravamo questo mondo sommerso, toccandolo con mano, cambiava anche il corso della storia. Se l’oggetto filmico non si presta ad essere abitato è morto. Il presupposto era il tentativo di colonizzare l’informe. Da questo nasce anche la mia attrazione quasi ossessiva per la fenditura della montagna, che temevo di varcare come davanti a un taglio di Fontana. Una volta passato il confine, abbiamo cominciato a sprofondare nel buio più assoluto. L’uomo è sempre attratto da ciò che teme, in questo è raccolto il concetto di sublime. L’informe si anela, ci si sprofonda per andare a ritroso, scavare per ritrovare qualcosa di importante. Il problema è che l’uomo vuole conquistare tutto quello che scopre. Volevo raccontare anche questo nel film. Durante le riprese nella grotta succede una cosa importante: lo spazio viene mappato, scoperto nel buio dell’inquadratura attraverso delle fenditure che sono le lame di luce prodotte dagli speleologi. Mi piaceva questo concetto per cui solo illuminandoci a vicenda continuavamo ad esistere l’un l’altro, davanti ai nostri occhi. Il fatto è che a stabilire chi e quando poteva comparire era sempre la grotta. Eravamo totalmente in balia dell’oscurità. Immaginate quale rapporto c’è stato, fra noi uomini minuscoli che si sostengono l’un l’altro illuminandosi, e il buio più profondo della grotta che ci inghiotte. Nel momento stesso in cui vedi, ovvero accendi lo spazio ignoto, hai perso: hai rimosso il mistero, hai svelato l’informe. Il desiderio di poter vedere la grotta senza di te, svanisce in un lampo. Questo desiderio non è solo un concetto, se ci pensate dentro una grotta ci sono delle parti che non bisogna toccare assolutamente o si rischia di distruggere per sempre un piccolo ecosistema. Questo è il mio rapporto con l’informe, a mio parere non è indispensabile conoscere per forza tutto quello che conta, svelare ogni mistero, sopratyutto nel cinema. Lo sguardo uccide.
Fi: Jean-Luc Nancy faceva notare che la parola “regard” significa sia “sguardo” che “riguardo”. Nel tuo film sembra quasi che la grotta abbia cercato di filmare se stessa.
MF: In qualche modo è proprio così. La grotta si filma esattamente come si fa esplorare: puoi mettere i chiodi solo in certi punti, tiri le corde, devi seguire il corso dell’acqua… se ci pensi è proprio l’acqua che scava la grotta, per cui filmando abbiamo seguito il suo sviluppo naturale. La grotta non si può ammaestrare: all’inizio mi domandavo come avrei fatto a riprenderla dall’interno, poi ho capito che i punti macchina dovevano essere esattamente quelli che la grotta ci offriva. In questo consiste anche l’approccio rispettoso, disancorato dalla colonizzazione dello sguardo umano, quindi antispettacolare. Mi sono affidato a quello che il filosofo Raymond Ruyer chiama il “sorvolo senza distanza”: non esiste lo sguardo su qualcosa, ogni cosa deve coincidere con la realtà stessa. Una dimensione della natura forse un po’ cosmologica, ma che sento presente nel mio percorso artistico da sempre. In questo consiste anche l’aspetto più vitale del mio lavoro, più performativo come lo chiami tu. Scendere a meno settecento metri nell’arco di venti ore è un’esperienza che condiziona per forza la resa finale del tuo lavoro. Noi non abbiamo solo filmato la grotta, abbiamo vissuto l’esperienza della grotta. Un giorno ho anche scelto di dormirci dentro, per vivere l’esperienza del sogno della grotta. Nel cuore della terra sembra di andare alla deriva. Le temperature sono costanti, sudi e non ti asciughi mai, manca l’ossigeno, l’assenza del ciclo circadiano modifica la tua concezione del tempo che davi per così per scontata… anche gli speleologi più esperti hanno avuto come noi esperienze di miraggi sonori. Per questo è fondamentale che qualcuno stia fuori dalla grotta, per vegliare su chi è dentro e perde la concezione delle ore che passano. Ho scelto di dedicare così tanta attenzione al buco filmato dall’esterno proprio per questo: paradossalmente chi rimane fuori deve stare molto più attento di chi sta dentro. I pastori del posto lo sanno bene, infatti non entrano mai: rimangono in ascolto. L’esperienza della grotta è talmente forte che ha scardinato pure i ritmi di produzione: ogni tanto stavamo per ore dentro le gole, magari piegati in posizioni scomode, aspettando che i fonici piazzassero i loro microfoni. E quando uscivamo non sapevamo più se era giorno o notte, magari gli altri stavano dormendo. Avevamo tutti orari sfalsati, devo ammettere che il produttore era molto preoccupato. Ma questo, credo, è anche ciò che rende particolare il film. Serve un sodalizio con la vita senza compromessi, per essere sempre pronti alla dimensione dell’evento ed accoglierlo all’interno della tua narrazione.
Fi: Poco fa hai nominato i pastori. Sembra che la parte meno documentaristica e più “recitata” sia proprio quella con loro.
MF: Non proprio, nel senso che le parti dedicate a Nicola Lanza, il pastore che chiamo zi’ Nicò, rispondono alla stessa necessità di accogliere gli eventi inattesi. Ti faccio un esempio: lui ovviamente non muore nel film (anche se purtroppo è mancato realmente qualche mese fa), ma durante le riprese si addormentava spesso, così abbiamo pensato di riprenderlo in quello stato, dato che farlo recitare era impossibile e comunque non ci interessava minimamente farglielo fare. Anche lui, come la grotta, non si poteva ammaestrare. E quando arriva il medico a bordo dell’asino, si tratta davvero del dottore del paese, e zi’ Nicola ne ha approfittato per farsi visitare, già che c’era. Con questo intendo dire che bisogna essere sempre pronti alla dimensione dell’evento.
Fi: Ci sono molte altre cose che vorremmo sapere, ma per rispettare il mistero di cui ci parli alcune forse è meglio che rimangano segrete. Se ti va, ti chiederemmo di spendere qualche parola sul finale, in particolare sui richiami dei pastori.
MF: La dimensione sonora del film è fondamentale e sono grato ai fonici per il lavoro eccellente che hanno fatto, non me ne capacito ancora. Come avrai notato, c’è una netta differenza anche nella parte uditiva fra interno della grotta ed esterno. Ultimamente mi sto appassionando molto al suono, credo che il nostro orecchio lasci più spazi all’interpretazione di quanto possano fare le immagini. Cercavo dei suono liberi, ribelli, non addomesticabili appunto. Se ci pensi, il suono non è così violento nell’imporre una forma. Alla fine delle riprese, in fase di montaggio, mi sono accorto di qualcosa che sentivo e a cui non avevo mai prestato veramente attenzioni: i richiami di zi’ Nicola. Aveva una maniera raffinata di chiamare gli animali, un timbro unico che personificava esattamente quella dimensione dell’informe che cercavo nella grotta, in bilico fra verso e parola. Per questo l’abbiamo lasciata integra, senza ritoccarla minimamente. Abbiamo notato un’altra cosa: quando stai in montagna il pastore lo senti, ma non lo vedi quasi mai. Al massimo vedi le bestie che sta portando al pascolo, ma lui no. Questa distanza fra assenza e presenza è la dimensione dell’eco, uno spazio duttile che rimbalza senza danneggiare, lascia un segno senza incidere. Proprio come lo stillicidio nella grotta, che ci racconta di una pioggia caduta chissà quando senza mostrarcela davvero. E poi c’è la questione del richiamo, quello che gli speleologi fanno durante le esplorazioni. Usano sempre una frase priva di senso, soltanto la ripetono o la urlano in base a quello che si deve comunicare. La grotta ti libera dal peso della parola, è il punto d’incontro dell’informe, fra uomo e natura.