Descrivendo il suo film Jiao ma tang hui (A New Old Play), presentato in Concorso internazionale a Locarno 74, Qiu Jiongjiong ha usato lo strano termine di “pre-biografia”: come se gli eventi narrati nel film lo riguardassero non da un punto di vista autobiografico – è la storia di una famiglia nella cornice dei cambiamenti sociopolitici della Cina novecentesca – ma da un punto di vista inconsciamente autobiografico. Come se, insomma, a essere messo in scena non fosse l’oggetto di una piena consapevolezza ma l’inconscio della sua personalità, il ribollire di elementi ereditari e di una conoscenza a priori non proprio consciamente elaborata.

Effettivamente guardando il suo film sembra di assistere al concretarsi di un’evanescenza, che resta però sempre sul punto di ritrarsi per scherzo o per segreto, allo stesso modo della nebbia che pervade i lunghi carrelli orizzontali con cui il regista schiaccia l’orientamento spaziotemporale. In questa nebbia abitano senza distinzione demoni e uomini, esseri che stanno attraversando un limbo (come il protagonista, un ex attore dell’opera che deve raggiungere il Regno degli inferi) e viventi che ancora soffrono i rovesci della Storia (sempre il protagonista, lungo tutta la sua crescita umana e professionale). Il fenomeno atmosferico però non è solo un collante drammaturgico, una soluzione narrativa pensata per stilizzare un continuum impossibile tra vita e morte; è soprattutto il contratto, pensato in forma schermica, in segno cinematografico, tra il ritrarsi continuo dell’inconscio storico e la possibilità di esprimerlo, elaborarlo, in un’immagine.

Il teatro è la forma culturale che sta in mezzo a questo contratto, anzi, è la prova delle sue tensioni. Attraverso i cambiamenti del linguaggio operistico cinese Qiu Jiongjiong esamina le conseguenze provocate dalle trasformazioni del panorama politico, in particolare dalla persecuzione organizzata dalla Rivoluzione culturale nella seconda metà del XX secolo nei confronti delle compagnie teatrali – persecuzione che riguardò tutti i “vecchi modi di pensare” della cultura cinese. È contro questo inconscio (perché smaltito dall’incedere dell’ideologia) panorama di conflitti storici irrisolti che interviene il tentativo di elaborazione, di messa in forma del regista, che, coerentemente con la volontà di ragionare su un’eredità quasi dimenticata, sceglie come codice formale proprio un “vecchio modo di pensare”: quello della pittura.

Così anche se a essere messa in scena è quasi sempre incordata a un piano teatrale – quella di una compagnia-scuola piano piano smantellata – a dominare è la bidimensionalità propria della tradizione pittorica, la dimensione che ancora può evocare il sacro (ormai fuggito da tempo dal luogo teatrale, come sostiene il film tramite la gag della divinità che abita nel teatro della compagnia) e ricordare l’esistenza di una verità non asservita al potere. La bidimensionalità nebbiosa che impellicola l’andirivieni temporale è una forma di contratto tra l’inconscio e la sua elaborazione che dice della necessità di mediare la verità nella misura della distanza, del ritegno, del rispetto per i fantasmi della propria storia. Una risposta che sembra opposta a quella di un altro pensiero dell’elaborazione dell’inconscio: il metodo Stanislavskij, importato forzatamente nel teatro cinese assieme al realismo socialista negli anni ’30. [Leonardo Strano]


Oltre i volti e le memorie

virgin blue

Il vento sibila, ma non ci sono fessure da cui possano provenire spifferi. Dalla finestra un raggio di luce filtra e si infrange contro gli spigoli di una casa vuota, colmandola di una presenza che trascende la vita e la morte: quella del nonno di Yezi, mancato da poco, portando via con sé la protezione di un amore familiare a cui lei – e forse anche la stessa regista di Bu yao zai jian a, Yu hua tang (Virgin Blue) – non sa rinunciare.

Yezi infatti ha paura. Ha paura di tradire la memoria del nonno, dimenticandolo, e di essere dimenticata a sua volta dalla nonna, preda dell’amnesia. Si ancora così alla sua infanzia, nutrendosi degli spicchi di memorie raccontati dall’anziana donna nel fluire atemporale della sua vita, in cui persone e storie tornano a galla come salvagenti a cui aggrapparsi: disperato tentativo di non affogare nell’oblio di un mondo privo di amore, privo di senso.

Nel suo primo lungometraggio, presentato a Locarno 74 nel Concorso Cineasti del presente, la regista cinese Niu Xiaoyu racconta in questo modo se stessa. Lo fa attraverso la giovane protagonista a lei cara (così come il resto del cast, radunato tra amici e parenti); ma anche tramite la sua voce, a tratti amalgamandosi alla narrazione con interventi metacinematografici per interpellare la nonna (nel ruolo di se stessa).

Nell’intima e personale rappresentazione della propria vulnerabilità, Niu Xiaoyu rappresenta l’angoscia di perdere un legame che fisicamente non è o non può essere consumato e la paura di dimenticare ed essere dimenticati; la paura di abbandonare la memoria di qualcuno come se il passato insieme fosse privo di significato. Da qui il desiderio di pietrificarsi nel confortevole ieri, per paura di farsi scivolare tra le dita il calore di un amore che cerca di trattenere oltre il suo corso.

I legami profondi che uniscono le persone non sono però dissolubili. Si estendono oltre la morte, oltre la vista, il tocco e la parola, e durano in eterno come fondamenta di chi diventiamo ogni giorno. Alla fine se ne rende conto anche Yezi, accettando di lasciare andare il ricordo ossessivo del nonno, come due pianeti distanti agganciati alla stessa orbita. [Chiara Delbecchi]

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