L’adolescenza è come un prisma: sfaccettata, luminosa, divergente. Il cinema si nutre delle storie di questa età di passaggio, dei traumi che l’attraversano, delle sue emozioni indomite e spesso irrazionali. Dietro all’inspiegabilità che quel periodo di transizione si porta dietro, c’è la lente per filtrare la realtà, una lente assorbita di sentimento e verità, sorta di prezioso potere empatico capace di riconoscere la complessità dei rapporti umani. Gli adolescenti sono “dei mondi a tutti gli effetti” (dice il padre della protagonista) le cui soglie di dolore sono impercettibile mistero. Con la sua ultima opera in concorso a Locarno 74, Petite Solange, la regista Axelle Ropert torna sul dramma famigliare, questa volta visto dagli occhi di un personaggio preciso. Solange ha quasi 14 anni, e la sua è una famiglia medio-borghese perfetta: una madre attrice di teatro, un padre esperto di strumenti musicali e un fratello studente universitario. Solange non ha vizi, va bene a scuola, è appassionata di scienza, ambiente e letteratura. Ha una migliore amica e una timida cotta per il classico ragazzo ribelle della scuola. Ma soprattutto, ha uno splendido rapporto con i genitori che stima e ama follemente: la sua figura sembra non appartenere al presente così come il suo nome, “antico, preso dalla nonna”.
Una cornice impeccabile, un ritratto quasi caricaturale e inverosimile – reso ancora più estemporaneo dalla patinadella pellicola e i riferimenti alle realtà famigliari degli anni Ottanta – che si incrina nel momento in cui si concretizza il divorzio dei genitori. Le retine di Solange sono profonde, cariche di malinconia e pudica sensibilità, percepiscono e comprendono, silenziosamente e da spettatrice di troppo, quello che sta accadendo. Sono loro quelle a cui fare affidamento per tutto il film e la regista ce lo svela sin dalle prime inquadrature: è attorno alle sue emozioni e metamorfosi che la macchina da presa ruota, con una delicatezza rara, scrivendo l’intero film; lo sguardo cinefilo di Ropert, nutrito del cinema italiano degli anni Sessanta – in un legame palesato fin dall’inizio dal cognome della famiglia, Maserati – è coerente e solido, e trova ispirazione e massimo riferimento nell’Incompreso di Comencini.
Col procedere del film inizia a delinearsi la spaccatura che divide il mondo degli adulti con quello dei ragazzi: i linguaggi sono differenti, appartenenti a schemi lessicali sempre più lontani. Non ci sono più una madre e un padre ma due persone estranee, i cui gesti e parole si fanno sempre meno razionali. Dietro al corpo solitario di Solange c’è il peso delle lacrime e del non detto, del sapere soffocato, di un masso che cresce, di adulti che si fanno sempre più piccoli e una ragazza, che si fa sempre più grande all’aumentare del dolore e della sua consapevolezza. La bambina conosciuta all’inizio scompare a poco a poco e con la continua definizione di se stessa aumenta anche lo spazio che essa occupa nell’inquadratura. Non c’è ribellione o lite, ma la ricerca del tentativo di divenire migliori, di comprendere i fallimenti e le debolezze degli altri. Tra le righe del dramma emotivo trapela infatti una critica sociale, anch’essa celata, al meschino universo del mondo adulto: l’eroina di Solange e della sua amica è Greta Thunberg, unico collegamento che catapulta la storia ai nostri giorni. La Solange che teme di essere ancora immatura ha idee ben più definite dello stesso fratello, i cui occhi sono un’altra lente (anch’essa in transizione) che ci permette di vedere la sua evoluzione nei minuti finali, quando pacata spegne la candelina dei suoi 14 anni, guarda in camera e tra le mille incertezze, comprende finalmente chi non vuole essere in un atto di primigenia lucidità. [Vanessa Mangiavacca]
Petite Solange fa parte della rassegna Locarno a Milano, in cui i migliori film del 74° Locarno Film Festival verranno presentati al Cinema Arlecchino di Milano. Per info e biglietti vai su lombardiaspettacolo.com
Sogno barocco
Phil Tippet è un veterano degli effetti speciali del cinema di fantascienza, e tra i suoi contributi si contano Star Wars, Starship Troopers, Jurassic Park. Anche il suo “lavoro della vita” (lo ha occupato per 30 anni), il film d’animazione Mad God, presentato fuori concorso di Locarno 74, è un film di fantascienza – un tipo di fantascienza distopica abissale, sporca e purulenta, che ragiona sui dispositivi di controllo del contemporaneo e che, tra l’altro, si è sempre meno abituati a vedere di fronte all’incedere pervasivo dell’estetica sci-fi dal design più farmaceutico. Eppure, guardandolo non si pensa in primis alla fantascienza, bensì al barocco. In particolare, a quelle teorie che leggono nel barocco seicentesco la chiave, analogica ma decisiva, per comprendere il tratto della cosiddetta postmodernità. Benjamin forse è stato il primo a individuare nel tratto barocco l’idea regolativa del suo Novecento, la funzione di deformazione tesa ad appiattire tutte le verticali ascendenze della metafisica (la presenza di un’alterità trascendente la realtà) all’orizzonte di un’immanenza gretta ma spettacolarizzata – la stessa immanenza spettacolare che sembra essere la legge del contemporaneo postindustriale, assieme alla epidemica assenza di senso.
Quando il protagonista di Mad God, un agente mandato a compiere una missione mortale, discende verticalmente in un inferno senza vie di uscita, popolato da architetture mostruose e abitanti altrettanto ripugnanti, viene da pensare a questa erosione della verticalità (che poi è anche la possibilità di un senso altro) compiuta dallo stile barocco. Anche il breve prologo che anticipa il titolo del film (una tempesta apocalittica che adombra totalmente una torre di babele) sembra rimandare a questo oscuramento di possibile trascendenza. Non finisce qui però: gli esseri tra cui il protagonista si muove, animati in una stop-motion che lascia davvero turbati, si trascinano appesantiti da corpi vessati da protuberanze fisiche, esplosioni epidermiche assurde, membrane stratificate in altezza, come a confermare di uno squilibrio tra esterno e interno nel loro organismo. Questa esponenziale presenza dell’esterno rispetto all’interno, dinamica architetturale condivisa da tutto l’orizzonte infernale della scena, è un ulteriore barocchismo: l’assenza di senso si territorializza in una estroflessione bubbonica per dire di una pulsione che si espande su se stessa, cresce e cresce senza mai fermarsi.
Il protagonista non incontra però solo mostri, ma anche strani omini prodotti dal sistema che controlla il mondo sotterraneo, operai incastrati in una meccanica di produzione infinita e circolare (loro stessi sono il prodotto del lavoro) in cui vengono comicamente/tragicamente falcidiati. Come se il vettore estroflessivo della deformazione non fosse quindi solo endemico ma pure sistematizzato, un sistema di produzione che alimenta se stesso senza termine di autoconsumo. Piena automatizzazione autonoma non vivente, insomma, per dirla con un altro nume tutelare del post-moderno; automatizzazione che non conosce distinzioni temporali ma solo una continua ripetizione, in cui i poli temporali si fondono su un indistinto piano di presente appunto immanente. Questa caratteristica di istantaneità del collasso è rappresentata in un’opera (anch’essa barocca o neobarocca, come ha ben inteso Luc Tuymans nella mostra da lui curata intitolata Sanguine) che sembra molto legata al film di Tippet – anche per ragioni iconografiche: Fucking Hell di Jake e Dinos Chapman. Si tratta di un immenso diorama racchiuso in varie teche di vetro che raffigura un monumentale genocidio di scheletri e nazisti, in cui tutte le prospettive di senso collassano in un attimo voyeuristicamente sintetizzato dalla superficie schermica del vetro.
La funzione schermica del vetro (nel caso di Fucking Hell) e dello schermo cinematografico (nel caso di Mad God) è ciò che permette di riscattare eticamente la rappresentazione, potenzialmente illegittima, di una sofferenza indicibile: da tutto il male rappresentato, il male distopico delle mostruosità, il male reale dell’alienazione e della spersonalizzazione, la presenza di uno schermo ricava la presenza di uno spettatore e compie una mediazione in cui a essere messo in relazione alla violenza è lo sguardo spettatoriale. Così il male evoca l’umanità assente, il vuoto lasciato dal senso nel suo scomparire e la perdita, il dolore della perdita. Per un senso di empatia di fronte alla sofferenza che va oltre la follia dell’occhio di chi ha visto scenari mortali e non può che spaccarsi e irrorarsi di crepe di fronte al delirio senza fine, come fa l’occhio che compare all’inizio e alla fine del sogno barocco di Tippet. [Leonardo Strano]
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