Il mondo
non si è fermato mai un momento
la notte insegue sempre il giorno
ed il giorno verrà
Jimmy Fontana
Chi l’avrebbe mai detto che Gaspar Noé avrebbe alla fine girato una posata commedia degli equivoci su due anziani signori e che proprio questa commedia sarebbe stata un vertice della sua carriera? Vortex – presentato a Locarno nella sezione Piazza Grande – racconta di due coniugi ottuagenari (interpretati da Dario Argento e Françoise Lebrun) che a un certo punto devono fare i conti con la demenza senile, le cardiopatie e, soprattutto, la perdita di linguaggio. Questa progressiva perdita non deve suggerire che gli equivoci riguardino la coppia o solo loro, non più tanto in grado di comunicare: a cadere in equivoco sono in primis, come altre volte nel cinema di Noé, la rappresentazione (il linguaggio) e la realtà. È difficile pensare a qualche regista più interessato dell’argentino a sottolineare con foga questo equivoco, cioè quanto il linguaggio voglia controllare tutta la realtà e allo stesso tempo non riesca a ridurre a economia linguistica alcuni traumi; la pervasività della macchina da presa nelle sue messe in scena non è infatti un eccesso tout court (come per le videocamere intravaginali di Enter the Void) ma è un eccesso di linguaggio (di rappresentazione) che si esaurisce sempre in una paradossale resa al mistero del trauma.
Il trauma resta comunque l’evento non logicizzabile, non elaborabile dai segni e dai simboli, per quanto questi possano provare ad argomentare un discorso intorno a esso (come cerca di fare il personaggio di Argento, che cerca di scrivere un libro su cinema, simboli e sogni). L’inefficienza del segno o del simbolo va di pari passo nel cinema di Noé con l’ipertrofia della significazione, come in una balbuzie che ripete moltissime volte una parola senza riuscire a pronunciarla – all’inverso di Haneke che proprio nelle immagini statiche di Amour diceva di come la scomparsa della significazione possa conferire un nuovo senso alle cose. Vortex non si esime da questa convinzione a priori, anzi, fin dal titolo – il vortice è la configurazione organica della spirale, cioè quella figura in cui una curva si avvolge ostinatamente attorno a un determinato punto senza più raggiungerlo – dice di una incompatibilità frustrante tra linguaggio e realtà nel tentativo del primo di esaurire la seconda e di quest’ultima a nascondere nell’oscurità il suo traumatico fondo.
A questa incompatibilità il regista dà la forma cinematografica dello split screen: ancora, come per gli equivoci, questa tecnica non segue solo le rispettive azioni dei coniugi nella casa dove abitano per vederli rincorrersi sempre in ritardo l’uno sull’altro (fino a momenti di grande comicità/tragicità) ma evoca una rottura nell’apparente totalità dell’immagine, cioè nell’apparente possibilità della rappresentazione di inglobare la realtà. È la tecnica perfetta per dire della sconfitta dell’eccesso linguistico, perché è un’offerta di controllo ipertrofico (due momenti separati ma rappresentati insieme allo stesso tempo) che però dice della sua stessa balbuzie. Questo è evidente quando le macchine da presa sono posizionate per simulare un totale che sembra essere una precisa copia carbone (in piano sequenza) della realtà ma invece si presenta leggermente sfalsato nei punti di sutura, producendo quell’effetto distorcente di certi specchi d’acqua – come in quella geniale opera di Bill Viola, The Dreamers, in cui alcuni i connotati dei soggetti ripresi dall’alto (proprio come in Vortex) sono leggermente modificati dalle increspature acquatiche.
Il linguaggio, sia esso la memoria che cerca di ricordare tutto il suo passato o la ricerca di una spiegazione, non guadagna mai la totalità, non circonda il trauma, in questo caso il trauma della morte, della verità della scomparsa, del trapasso di tutte le cose nel nulla: questa sembra essere per Noé una certezza – e se si può rimproverare qualcosa al regista è forse proprio il cinismo facile che segue questa certezza, invece assolutamente poetica e dolorosa, che il cinema sia esperienza dell’annullamento delle cose. Non esperienza del nulla quindi, ma del passaggio delle cose dall’essere al non essere attraverso il linguaggio, “passaggio attraverso” che il cinema è in pieno come “immagine in movimento” sempre interessata a ordinare in forma il caos e la materia mentre li attraversa. Secondo il regista il cinema stesso può biasimare dall’interno questa pretesa dispotica dell’immagine: non con il facile shock provocato dalla letterale messa in scena del trauma ma con uno stress formale che o contraddice la totalità o genera una dimostrazione per assurdo di come la totalità sia un inganno.
Infatti anche se per la sua lunga durata (142 minuti) il film è soprattutto questo effimero passaggio attraverso le cose all’interno di una casa mai vista nella sua totalità, verso il finale del film Noé rimuove lo split screen e tiene una sola inquadratura, uno spioncino quasi da cui guardare con distanza. In quest’unico riquadro la totalità non si spacca più ma è invece apparentemente rivendicata dal linguaggio: il nipote dei due coniugi assiste (come aveva predetto un frammento radiofonico a inizio film) alla morte dei nonni come a un evento linguistico, un rituale comprensibile pensato per superare il trauma. I nonni diventano soggetti in primi piani fissi, poi cenere, poi cenere in un’urna, un’urna in un cimitero, un cimitero in un paese, un paese in un panorama. Il bambino acquisisce il linguaggio che prima non aveva (sentiamo le sue prime parole in tutto il film) trasformando il trauma in evento comprensibile. Della vita resta una fasulla lapide scritta ci dice Noé, o meglio, un vortice che nel suo folle movimento può sembrare immobile.
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