Sulla carta sembrava esserci una forte interruzione di continuità tra il film d’esordio di Ferdinando Cito Filomarino e il suo secondo lavoro: difficile che un “manhunt thriller” ispirato dai film americani a sfondo politico degli anni ’70 potesse dire qualcosa di simile a una riflessione biografica sugli anni di formazione della poetessa Antonia Pozzi. Paradossalmente invece Beckett, film di apertura di Locarno 74, continua in maniera coerente, per quanto diversificata, le costruzioni di senso pensate in Antonia. Le immagini dei due film dicono cose diverse, ma condividono la stessa grafia, sempre rilevabile o meglio decifrabile in quello spazio vertiginoso presente prima che i contenuti si cristallizzino in forma definita. Questa grafia condivisa che ogni tanto si affaccia luminosa sulla scena per spezzare le cornici delle definizioni non è una firma solo formale o un segno narrativo, ma è proprio una atmosferica sintesi dei due aspetti, una soluzione di linguaggio in grado di argomentare per immagini. Cosa nello specifico? In entrambi i casi, e questo pare il punto di contatto tra i film, il ruolo della perdita nella costruzione dell’identità, il segno di ciò che è assente su ciò che è presente e quindi il modo che la presenza ha di volgersi all’assenza, qualcosa di impalpabile, che passa lasciando un solco, una traccia su chi resta.
Mentre in Antonia questo discorso trovava un ideale segno espressivo nel corpo frustato dalle delusioni d’amore e dall’incomprensione generale della voce della poetessa, in Beckett la dialettica tra identità e perdita si misura su altre dimensioni: Beckett (John David Washington) è un turista americano che sta facendo le vacanze in Grecia con la sua fidanzata April (Alicia Vikander), fino a quando, a causa di un incidente stradale, la ragazza muore; senza avere tempo per elaborare il lutto l’uomo si ritrova implicato in quello che sembra un complotto delle istituzioni ai suoi danni. Si tratta di un equivoco o nell’incidente l’americano ha visto qualcosa che sarebbe dovuto rimanere nascosto? Il film sceglie presto che direzione prendere rispetto a questo bivio e accetta di giocare fino in fondo le regole del thriller, senza però cedere totalmente il controllo della propria postura al genere: riesce infatti nel difficile compito di elaborare il tema dell’identità anche con codici non immediatamente psicologici, tracciando il percorso identitario attraverso l’esponente sociopolitico della crisi greca del 2015, tra cittadini in rivolta contro l’austerità, l’insorgenza di movimenti neofascisti nel dibattito pubblico e lo spettro della tragedia dei migranti.
La grafia sensibile di Filomarino, attenta al tratteggio su piccola scala, non si perde nella cornice di grave tensione di massa, anzi, fa sì che quest’ultima catalizzi il trauma del personaggio, rendendola estensione deformante o specchio della crisi identitaria dell’individuo protagonista. Il personaggio di Beckett sembra essere vittima di una indecisione identitaria (le sue prime battute riguardano questo stato di non riconoscimento) che il lutto, come perdita di una parte di sé, rende cosciente; parallelamente la situazione di crisi lo obbliga a trovare una soluzione a questa indecisione, almeno per sopravvivere: Beckett è chiamato a continue risposte decisive. La progressiva ricapitolazione di sé tramite il lutto e la prassi in uno stato di tensione fuori dal normale (deformazioni del corpo dovute a ferite ricorrono nel film a rilevare questa identità sformata) è proiettata sulla scala di una crisi individuale condivisa. Ma il film non passa dal lutto personale alla crisi di una nazione per poi ripiegare all’indietro senza un termine di passaggio intermedio: usa la paranoia (il genere del “manhunt thriller” è anche detto “paranoia thriller”) come sentimento che traduce la coscienza del non controllo sulla propria identità a causa di un trauma in un’interpretazione degli altri come individui minacciosi e quindi come perfetto sentimento su cui si imperniano l’individuo e la collettività.
Il punto a cui il film è interessato non è però il mero sintomo della paranoia: al film non preme provare che Beckett e la collettività dei cittadini greci sono paranoici che vedono la realtà come una minaccia (in un caso corporea nell’altro neoliberale e finanziaria) alla libertà individuale. A Filomarino sembra interessare di più la dimensione condivisa che precede e motiva questo sintomo, la radice comune del trauma, che genera un gioco di sponda tra situazione privata e situazione pubblica: come l’identità della Grecia traduce la situazione di crisi in paranoia collettiva (legittima o meno) che sfocia in protesta, così Beckett passa per contratto nello stato di paranoia per ricomporre il lutto in una forma di identità. Non è un caso che la risoluzione del complotto politico corrisponda a una presa di coscienza definitiva in prima persona da parte del protagonista; il lucido esponente sociopolitico in questo senso sta in bilico tra un MacGuffin, un mero espediente, e una funzione di amplificazione sentimentale, visto che la descrizione del dramma politico e sociale non è solo un modo per esplicitare il lutto ma allo stesso tempo non guadagna mai la scena principale (neanche in momenti determinanti, ricondotti a dimensione psicologica dal fuori campo).
La qualità della grafia di Filomarino sta nell’impressionare i due percorsi in un’unica immagine: è la grafia di cui sopra, che torna per dire dell’assenza che definisce l’identità nel continuo rimpallo tra assente e presente. Mentre in Antonia il vettore della dialettica tra identità e perdita era una progressiva addizione e concentrazione di sensazioni corporee fino al loro dissolversi – la progressiva perdita delle speranze era patita dal corpo e come esorcizzata fino alla scomparsa, con il suicidio, di Antonia stessa – in Beckett avviene l’opposto, un movimento di virtualizzazione che sfocia nel corporeo, in cui il trauma provocato dalla perdita improvvisa della fidanzata è elaborato dal protagonista attraverso una serie di virtualità (le virtualità spettrali della geopolitica) che ingigantiscono la ferita su dimensioni pubbliche senza perdere però l’intensità propria della dimensione raccolta che gli è propria. In entrambi i casi l’immagine è in grado di cogliere l’assenza di ciò che era presente o la sua persistenza in forma di ricordo, il concretizzarsi del virtuale e la fantasmatica virtualità del concreto. In Beckett è la grafia di questa immagine a dire del segno che costituisce l’identità in lutto, privata e pubblica, è la grafia a dire della presenza di una ferita invisibile ma non cancellabile, persistente anche se sottile. Anche solo, come si nota nel finale del film, nella forma di un disegno d’amore che resiste sul palmo della mano mentre tutto intorno sbiadisce in un grande boato.