I’d like to be
Under the sea
In an octopus’garden
In the shade
We would sing
And dance around
Because we know
We can’t be found
(Octopus’s garden, Beatles)
Questo articolo è dedicato a Inky, il polpo evaso dall’acquario
nazionale neozelandese nel 2016 e a tutti gli animali resistenti.
In Cosa può un corpo? Deleuze si serve dell’immagine della “sequenza” – alludendo all’unità di misura costituente lo “specifico cinematografico”- per evidenziare come, per essere compreso, un concetto non abbia bisogno di nessuna rappresentazione, semmai di una sua collocazione in un insieme concettuale. Deleuze si riferisce alla emancipazione del concetto di Dio prodotta dal cristianesimo, e cioè a un vero e proprio processo di liberazione dell’immagine dal dato concreto a cui viene abitualmente associata. Nelle sue lezioni su Spinoza Deleuze voleva enfatizzare come la rivoluzione filosofica cristiana amplifichi il concetto di Dio fino a materializzarlo come “l’insieme delle possibilità di emancipazione” e la sua immagine come “una danza pura in cui le linee e i colori non dovevano più essere verosimili o esatti, né tantomeno assomigliare ad alcunché”. Insomma attraverso il processo di liberazione dalla realtà e dalla sua rappresentazione, l’artista poteva rendere esperibile l’idea di Dio come una serie infinita di possibilità.
Mi si perdoni la disinvoltura nell’accostare il sacro al profano, ma My octopus teacher, film vincitore della novantatreesima edizione dei premi Oscar del 2021 come miglior documentario, contiene, al di là delle sue intenzioni e dei suoi meriti (ci sono e sono molteplici), una innegabile fascinazione per la questione, quantomai etica, delle potenzialità di un corpo.
A dispetto della confezione, che rimanda a certo estetismo etologico alla Attenborough e alla struttura, che esplicita la sua vocazione rappresentativa cara al cinema di finzione dove è il racconto dell’incontro tra un uomo e un animale selvaggio a prendere decisamente il sopravvento sul resto, il film riserva più di una sorpresa.
Fin dal titolo originale infatti My octopus teacher, diretto da Pippa Erlich e James Reed sotto la supervisione del filmmaker Craig Foster che l’ha prodotto e interpretato, sembra spostare l’attenzione dall’impianto antropocentrico, che risponde efficacemente alla canonica richiesta di sviluppo narrativo propria del cinema di intrattenimento con tanto di prologo ed epilogo, a quella cognizione incarnata espressa dall’intelligenza di un corpo. Un corpo invertebrato come quello di un polpo, la cui particolare morfologia è in grado di definire e modificare l’ambiente in cui vive e si relaziona. Secondo Peter Godfrey-Smith “La struttura del corpo di un animale crea al tempo stesso vincoli e opportunità che ne guidano l’azione”. Ma, a un’analisi più circospetta, il polpo sembra tradire anche questa teoria: la morfologia del suo corpo privo di vertebre e scheletro è talmente informe da costituire una serie pressoché infinita di possibilità formali da assumere. “Il polpo ha una incarnazione diversa di un tipo talmente insolito da non corrispondere a nessuna delle consuete prospettive”.
La domanda che molti anni fa si pose il filosofo Thomas Nagel, what it’s like?, a proposito di cosa si prova a essere un pipistrello cercando di ribaltare la prospettiva antropocentrica umana è la stessa di Craig Foster nel film: come è essere un polpo?
Nella parte iniziale del film Foster racconta la sua esperienza nel deserto del Kalhahari centrale al seguito dei cacciatori di orme di hidden animals, animali nascosti difficilmente visibili agli occhi inesperti di un forestiero e, d’altra parte, affascinante materia di studio per la criptozoologia. Il documentarista confessa la sua frustrazione nel prendere coscienza di quanta distanza possa esservi tra un bianco benestante e privilegiato e un ambiente ostile e completamente estraneo come quello caratterizzato dalla natura estrema del deserto: “Non volevo vedere più una telecamera…non ero parte di quel territorio…dovevo cambiare prospettiva”, esclama a un certo punto.
Il ritorno a casa a Capo delle Tempeste, nella parte sud-occidentale del Sud Africa, è caratterizzato dalla consapevolezza di essere arrivato a un momento decisivo della sua vita ed è proprio il mare a indicargli la nuova strada da percorrere. Tornare a immergersi nell’oceano, iconicamente scandito dalla ripresa in dettaglio dei suoi piedi mentre camminano sul fondo del mare, significherà intraprendere quel percorso che lo porterà a incontrare la piovra e che segnerà profondamente il resto della sua vita. Per cambiare radicalmente prospettiva dobbiamo tornare ad affidarci ai nostri sensi e abbandonare le nostre aspettative antropocentriche. Foster, immergendosi nelle acque di Western Cape, ecosistema marino caratterizzato da vastissime foreste di alghe Kelp, si lascia sorprendere, forse per la prima volta, da ciò che vede. Il primo incontro con il suo nuovo insegnante infatti assume il modo dell’illusione ottica. Il polpo, agli occhi del sub e ai nostri di spettatori, si trasforma in una particolare architettura fatta di gusci di conchiglie, carcasse di crostacei e coralli. Nascosto in questi scarti organici il polpo diventa un’opera d’arte vivente che finisce per ingannare tutti i nostri preconcetti.
Quando i due cominciano a toccarsi entrano in relazione. Il contatto provoca l’evento e sia Foster che il polpo vengono travolti da un processo di cambiamento e rinascita. È vero che le piovre possono cambiare aspetto, come mostra la straordinaria fotografia di Roger Horrocks con il quale Foster ha trascorso un anno intero sott’acqua – un arco di tempo corrispondente più o meno alle aspettative di vita di un polpo -, trasformandosi in rocce, mimetizzandosi con la sabbia del fondo marino o assumendo con il loro corpo “libero” da ogni costrizione morfologica qualsiasi forma voluta, ma è altrettanto vero che queste forme di vita possiedono una sofisticatissima agenda di problem solving con cui affrontare l’ambiente in cui si trovano a relazionarsi. Quando un elemento estraneo come l’uomo irrompe nello spazio vitale di un polpo si genera una particolarissima forma di riconoscimento in grado di rimettere in discussione tutte le qualificazioni etologiche che lo definiscono come cefalopode invertebrato. In particolar modo la capacità di riconoscere una serie di oggetti per continuare a servirsene nel corso del tempo è una facoltà che la scienza etologica associa ad alcuni animali ritenuti sociali o monogami, ma il polpo è un “animale” con una vita sessuale disordinata e trascorre gran parte della sua vita in solitudine. L’epifania del film si sviluppa proprio nei momenti in cui il polpo si lascia andare al gioco dei ruoli e delle situazioni, come se volesse dimostrare a quell’individuo appartenente alla specie del sapiens la gioia che si prova a essere un invertebrato con dei tentacoli al posto del sistema nervoso e con centinaia di ventose che fungono da cervello. I confini di specie cominciano a dissolversi quando il polpo prende confidenza con le protesi tecnologiche, mettendosi a disposizione dell’obiettivo di Foster o, viceversa, quando il filmmaker si trasforma in tana e rifugio per il polpo. Il corpo di Foster, anche grazie alla “magia” del cinema e all’uso scaltro dei suoi artifici come il montaggio, le ellissi o il campo -controcampo – ricordiamo che il sub non fa uso di bombole di ossigeno nelle immersioni – diventa il corpo del polpo e come quello è ovunque e allo stesso tempo in nessun luogo. Vale la pena di sottolineare come le uniche parti percepibili del corpo di un polpo dall’occhio umano, soprattutto in un ambiente come quello sottomarino in cui la visibilità è sempre problematica e comunque mediata da superfici riflettenti, sono la testa e gli occhi; e quando nuota con il particolare sistema di propulsione a getto mentre schizza via improvvisamente oppure quando “cammina” sul fondo marino tenendosi in equilibrio sui tentacoli come fosse un bipede, è difficilissimo distinguerne le singole parti, come suggerisce il film in alcune delle sequenze più suggestive.
L’antinomia del film è la stessa che determina la contraddizione alla base della macchina cinema: il tentativo di superare la radicale separazione tra l’uomo e l’animale facendo ricorso alle tecnologie che raccontano questa differenza percepita come unicità della specie sapiens. La tesi di Mark Rowlands per cui l’uomo è un animale da storie forse potrebbe chiarire l’irrisolta questione che determina l’antropocentrismo del dispositivo cinematografico: essendo l’uomo un animale mediatico e cioè un essere vivente tecnico che sviluppa il piano del sensibile in maniera estetica, l’animalità diventa sempre più il campo del contendere mediatico.
My octopus teacher riflette proprio la contraddizione stessa del cinema che, cercando disperatamente di fuggire dal principio di realtà che lo inscriverebbe nella dimensione adulta dell’arte, trova la soluzione nella sospensione della credulità. Come dice Rowlands infatti l’uomo è quell’animale che crede, che esprime la sua sensibilità animale credendo al racconto di sé e del mondo. Per descrivere l’insostenibile incontro tra un essere umano e un essere alieno c’è bisogno di una storia in grado di narrare le peripezie di questa speciale avventura amorosa. I pericoli che il polpo deve affrontare per sopravvivere – gli attacchi degli squali pigiama, la lotta con alcuni individui della sua stessa specie, l’accoppiamento (il polpo protagonista è una femmina) e la conseguente gestazione della gravidanza – lo avvicinano sempre più al momento culminante del film – la morte. Il climax si struttura intorno ai momenti apicali come tappe che conducono all’inesorabile momento della dipartita del polpo. Questa malizia narrativa, esplicitata fin dal titolo disneyano, Il mio amico in fondo al mare, con cui è stato distribuito sulla piattaforma di Netflix Italia e che ha contribuito al successo del film e al suo riscontro mediatico, viene costantemente tenuta a bada dal dovere professionale di Foster. Il documentarista infatti, per non interferire con l’ambiente biotico costituito dalla foresta di alghe, frena i suoi impulsi umani per cercare di strappare il polpo dalle fauci del pescecane, tenendo fede in questo modo al suo ethos professionale. Ma non può non chiedersi se anche un polpo sogna, e se sogna, cosa sogna. Il polpo potrebbe avere un’esperienza di sé piuttosto complessa: essendo il suo cervello disposto sull’intera superficie del corpo, egli potrebbe percepirsi come sé e, contemporaneamente, come altro da sé. E, in fondo, anche lui credere al racconto di un sé che racconta la storia di un polpo che insegna a un uomo come è bello vivere e sognare in una foresta di kelp.