Testi in dialogo, testi accostati e fatti dialogare per capire un disegno di fondo, una rima, il profilo di un progetto nascente che si rivela in segreti rimandi a forma di eco: Corpus Christi in sala, The Hater su Netflix, entrambi diretti dal polacco Jan Komasa. Tra le molteplici simmetrie, in realtà è un’asimmetria a contare di più, quella che si nota in una scelta di scrittura (poi scelta di montaggio) che apre uno scarto considerevole, una differenza tra due racconti altrimenti quasi identici. In entrambi i casi infatti il protagonista è un giovane che sta entrando nella società e che, nel confronto decisivo e definitorio con l’alterità collettiva, mente, si finge, si maschera per controllare a piacimento il contratto sociale che deve firmare per esistere. In Corpus Christi Daniel è un detenuto che appena esce dal riformatorio non accetta di rendere produttiva la sua condanna nell’impiego assegnatogli – un lavoro nella segheria dove sono collocati tutti gli ex ragazzi carcerati –, ma si finge un prete, disponibile ad aiutare nella chiesa di paese che sta perdendo fedeli. In The Hater invece Tomasz è uno studente che viene espulso per plagio dall’università e, preoccupato del potenziale declassamento sociale, si costruisce un’identità lavorando nel marketing emozionale o, più precisamente, in campagne d’odio: si inventa hater di professione, mascherandosi in un profluvio di menzogne e personalità multiple.
Questo è per Komasa (e per il suo sceneggiatore Pacewicz) un caso di riscrittura, di riconfigurazione di un’idea profonda, che riguarda il contemporaneo – la dialettica sempre problematica individuo-collettività e contestualmente la questione del potere e dell’apparire – e la prospettiva del soggetto. Ma non è solo una riscrittura: è un aggiornamento, se si legge l’idea da Corpus Christi a The Hater alla luce del percorso come pensato nella filmografia del regista, oppure una lettura a posteriori, l’indagine genealogica su un’intuizione, se si segue il percorso inverso per come sono stati distribuiti i film, da The Hater a Corpus Christi: a seconda di dove ci si collochi in questa oscillazione si tratta in ogni caso di un incontro emozionante, di un processo di verifica delle immagini e di come si costruiscono, da come sono pensate a come prendono corpo. In questo incontro, come si diceva, si può partire da quell’asimmetria di scrittura o di montaggio che permette di comprendere come il discorso sul contemporaneo si concreti in un’idea cinematografica, in una soluzione linguistica che contrae le idee in immagini. Questa particolare soluzione di scrittura di cui si parla è presente come elemento di rilievo in The Hater ma è solo l’applicazione positiva di un meccanismo che in Corpus Christi è già presente, anche se silenziosamente.
Di cosa si tratta? Lo si vede bene in una delle prime scene del film, quella in cui dopo essere stato a cena dalla famiglia che gli paga gli studi Tomasz lascia nascosto nella casa il suo telefono con il registratore acceso e ascolta la conversazione che la famiglia ha su di lui mentre torna al suo dormitorio. Il montaggio del film sembra suggerire che il ragazzo stia ascoltando con un altro dispositivo mentre loro ancora stanno discutendo: alternando piani del suo volto irritato e piani dei famigliari che lo giudicano con spietata condiscendenza e snobismo la sequenza nasconde il fatto che questa azione parallela non avvenga mai nella realtà dei fatti. Tomasz semplicemente aspetta che il telefono registri qualche minuto della conversazione e poi torna nella casa per riprendere il telefono, ma questa attesa è rimossa dalla messa in scena e sostituita con il confronto sopra descritto, decisamente più produttivo in termini di resa emozionale. Si tratta di una applicazione intelligente delle canoniche regole dell’effetto Kulešov e della psicologia della Gestalt, manipolazione del contesto per alterare la percezione dell’espressione facciale dell’attore – e il volto è per Komasa l’arto centrale che coordina tutto il corpo del film. Perché una scena decisiva per l’impostazione del tema del film – il rapporto individuo (Tomasz) e collettività (la famiglia) – e per il suo sviluppo, visto che viene ripresa nel finale, è messa in forma tramite un trucco, una menzogna scenica così marcata?
A Komasa e Pacewicz interessa la completa aderenza tra personaggio e narrazione, interessa che sia il personaggio, l’attore Maciej Musiałowsk, a dettare le regole del film. Tomasz è un bugiardo patologico, ma non è sempre possibile riconoscere le sue menzogne come tali; la scrittura del film aderisce quindi completamente a questa natura nascondendo le sue azioni, opacizzando i rapporti di causa effetto che lo riguardano. C’è però anche un altro motivo per questa scelta: sovrapponendo piani temporali che sono in realtà consequenziali si formano bolle narrative che sono circuiti in cui i suddetti rapporti di causa-effetto lasciano il passo a una circolarità per cui crolla la barriera tra cause e conseguenze, fattori scatenanti e ripercussioni psicologiche. Il tempo si incarta e l’individuo lo segue in questo ripiegamento continuo, in questa struttura di necessità per cui, come si vede anche in un’altra scena, quella dell’espulsione all’inizio del film, il destino di Tomasz è scritto prima che lui si renda conto di esserne l’autore. Questa gabbia crudele, che assume presto i connotati di una condizione naturale (anche se in realtà sociale e quindi mutabile) da cui è impossibile sfuggire, non è saldata intorno al personaggio in maniera arbitraria dalla narrazione e non funge da attenuante o da misura giustificatrice: certo è resa dalla scrittura, ma è un prodotto della meschinità di Tomasz, che infatti è sempre libero di interrompere questa circolarità dicendo la verità (come avviene in un momento del film) e tuttavia decide sempre di trasferire le responsabilità delle sue menzogne alla crudeltà del sistema.
Il punto non è però che il sistema non sia crudele, perché il film è piuttosto imparziale nell’assegnare demeriti a tutta la struttura sociale; il punto è che il protagonista, di fronte alla scelta, contribuisce sempre a muovere in avanti il circuito di una violenza come un carnefice, piuttosto che farsene carico, come una vittima, per scioglierne il meccanismo. In The Hater la circolarità della violenza sociale passa da essere l’ineluttabilità di una condizione inalterabile, normativa, che sta là prima dell’individuo a causa delle storture della società, all’ineluttabilità del male prodotto dal singolo, che per sopravvivere genera un nuovo, apparentemente necessario, circuito di violenza. Tomasz è quanto di più vicino a una vittima all’inizio del film, un elemento che la società mal sopporta e vuole allontanare nella classica mossa del capro espiatorio: proprio per questo la sua operazione lungo tutto lo sviluppo è quello di generare vittime che possano sostituirlo, affinché siano loro a non prendere il posto che la società sembrava non volergli offrire; è il ribaltamento con cui un capro espiatorio ne genera uno nuovo per poter accedere nella società. Il risultato ottenuto del personaggio alla fine del film è proprio la produzione di un’altra condizione necessaria, del tutto simile a quella espressa nella prima scena in cui il tentativo di ingresso nella famiglia veniva mortificato, per quanto speculare e falsata: Tomasz è eletto a membro effettivo di una famiglia, grazie a una menzogna non distinta come menzogna, in una soluzione dell’iniziale conflitto individuo-collettività che sembra essere ancora effetto della bolla generata dalla opacizzazione del vero.
Renè Girard ha descritto questo conflitto come il passaggio, fondamentale in ogni civiltà, dalla struttura triangolare del desiderio (il desiderio di affermazione nel mondo) a quella circolare della violenza (l’antagonismo tra due che poi si estende alla società per catena mimetica) e infine al segno del capro espiatorio. In effetti quello di Girard è proprio il pensiero che si intravede dietro la scrittura di Pacewicz – Il capro espiatorio è un caposaldo della formazione dello sceneggiatore, per sua stessa ammissione. In Corpus Christi si nota molto: l’idea del filosofo che solo il cristianesimo sia il fenomeno religioso in grado di interrompere il meccanismo del sacrificio è centrale nel film. Come accennato sopra, anche in questo lavoro è il protagonista a dettare le regole del film, è il carattere di Daniel e il volto di Bartosz Bielenia a imporre l’andamento che in questo caso non si produce in torsioni virtuali ma procede per una linea retta e trasparente, che al massimo cresce di intensità (come la luce che cresce di luminosità durante il film). Daniel si finge prete ma non è un bugiardo, ha fede, crede veramente nel sacerdozio e vuole veramente aiutare la comunità in cui si inserisce; il film infatti interpreta la dinamica individuo-collettività e la dialettica tra verso e falso in maniera completamente differente da The Hater, tenendo come punto di fuga la cristologia come apparato iconografico in grado di rilanciare i discorsi sul soggetto contemporaneo e sul suo rapporto necessario con la società.
In Corpus Christi la comunità di paese è unita nel lutto e nella preghiera per un incidente in cui hanno perso la vita sei ragazzi e un uomo; in questo lutto condiviso i genitori dei ragazzi hanno ostracizzato la vedova dell’uomo che i genitori ritengono responsabile della morte dei loro figli. Le cose tuttavia non stanno veramente così come i genitori raccontano: la dinamica in cui Daniel si inserisce è quindi quella tipica del capro espiatorio per cui la folla produce un unico individuo ritenuto responsabile e lo elimina, assegnando a una falsa verità il compito di tenere insieme la società ostracizzando le menzogne vere che, se rivelate, spezzerebbero in due la società stessa. Questa falsa verità è frutto di un potere (nel film religioso, sociale e politico, a seconda delle figure che hanno nascosto alla collettività la realtà dei fatti per conservare lo status quo) che Daniel prova a scardinare da dentro, in una paradossale opposizione che lo vede dire la verità – pur essendo sotto mentite spoglie – in quanto consapevole caprio espiatorio. Provenendo dell’istituzione carceraria Daniel conosce il meccanismo di oppressione istituzionalizzata, quella stessa oppressione che costringe i giovani detenuti a lavorare in segheria fuori dal riformatorio, e vuole rivelarne l’assurdità nel momento in cui si accorge della stessa struttura nella società esterna: il suo percorso all’interno della comunità quindi, per quanto congruente con il meccanismo del desiderio – anche lui desidera essere qualcuno – e della rivalità – un altro detenuto lo confronta e lo scopre –, non è diretto alla reiterazione del male, ma all’interruzione della circolarità della violenza tramite l’assunzione del ruolo del caprio espiatorio sulla propria persona. A differenza di Tomasz, il passato criminale di Daniel non è una spinta a contribuire alla circolare produzioni di vittime, perché Daniel sceglie di dire la verità, di mostrarsi come colpevole responsabile. La scena in esame è quella in cui Daniel viene scoperto da Padre Tomasz, il prete del riformatorio, e quest’ultimo lo costringe ad abbandonare il finto sacerdozio. Daniel allora alla sua funzione di addio, davanti a tutta la comunità presente in chiesa, si libera delle vesti sacerdotali e mostra i suoi tatuaggi, rivelandosi.
Il suo corpo spoglio, sovrapposto a quello del Cristo crocifisso, è un’immagine trasparente ma profonda, perché risultato non di didascalismo ma di luminosità crescente, che tramite l’esponente della funzione cristologica – quella secondo cui proprio la figura di Cristo può svelare la dinamica del capro espiatorio, essendo lui innocente che viene sacrificato – mostra alla comunità, almeno per un momento (quel “Dio ti benedica” sussurrato dalla figura che più di tutte ha architettato l’odio per rinsaldare l’identità della società), la verità. Daniel dice la verità sulla dinamica del capro espiatorio perché mostrandosi colpevole responsabile dei suoi crimini passati (delle sue menzogne) si assume la colpa che la società ha bisogno di assegnare per esistere come società – e quindi non deve più indirizzare verso la vedova. Daniel, già caprio espiatorio, lo diventa di nuovo di una colpa non sua per rivelare la dinamica del meccanismo, interrompendo così la circolarità. È proprio la funzione cristologica l’apertura con cui il soggetto si può dichiarare soggetto anche al di fuori dell’appartenenza al regime della necessità: l’immagine del sacrificio di Cristo che rimane fissa sullo sfondo mentre il corpo di Daniel si libra come la rondine che ha tatuata sul petto (e no, non è Il corvo di Clouzot, richiamato dalla trama) indica il punto prospettico che il soggetto può seguire se vuole essere libero, è il segno di una possibilità, una linea aperta che permette di spaccare il cerchio della necessità e scegliere: la ragione invece del potere, la responsabilità invece della violenza, il perdono invece della vendetta, la verità invece della menzogna.
Perché se sembrava necessario negoziare il proprio ingresso nella collettività mentendo sulla propria individualità, l’esempio di Cristo offre un’alternativa di verità per cui il soggetto si fonda in una trasparente accettazione di sé. Così, anche se nulla sembra cambiare, mentre nella società soddisfatta dall’espulsione di Daniel la vedova viene re-inserita e mentre il “colpevole” viene rimesso al suo posto in riformatorio – per Girard anche dopo la rivelazione la persecuzione per il capro espiatorio continua – e affronta di nuovo la violenza di un destino scritto da altri, anche se nulla sembra essere stato scosso, i volti di chi ha incontrato il volto di Daniel cambiano per sempre e sembrano macerie dopo un terremoto. Allo stesso modo ci si può interrogare rispetto al senso di quanto visto: anche se The Hater mostra un cinismo convincente nel raccontare la vittoria della dinamica violenta a cui il soggetto sembra costretto a legarsi, non si può ignorare il racconto della possibilità illustrato dalla disfatta in Corpus Christi. La possibilità resta immagine in attesa, o traccia che guida. Come ha scritto Hans Urs Von Balthasar, il teologo che più di altri ha speso pensieri sulla bellezza salvifica del volto di Cristo: “Nessun combattente è più divino di colui che è in grado di vincere con la sconfitta”.