Esistono più di dieci interviste in cui Cassavetes dichiara con proverbiale convinzione, che per girare i suoi film l’intero cast doveva essere letteralmente sbronzo (assieme ovviamente a chi stava dietro la camera). Fra i risultati di questa pratica spicca Husbands, un film con molte cose in comune all’ultima fatica Vinterberg (siamo sicuri che il regista lo conoscerà a memoria). Inoltre non tutti sanno, ma possono ben immaginare, che per Nostra Signora dei Turchi Carmelo Bene si è sottoposto a una rigida dieta di eroina e champagne durante tutta la stagione di riprese. Per non parlare degli esperimenti di ipnosi attuati da Herzog, o delle dosi che Caligari osservava impotente iniettarsi davanti agli occhi dai suoi ragazzi di strada. Vogliamo davvero credere che Marco Ferreri non si sia goduto ogni bottiglia della grande abbuffata durante le riprese?
Ma allora, che cosa dovrebbe scandalizzare tanto di Un altro giro, l’ultimo film di Thomas Vinterberg? Nulla.
Il film vincitore dell’Oscar come miglior straniero è debole e privo di eccessi, nonostante venga presentato al pubblico come un’opera controversa e provocatoria. La trama è semplice (per non scrivere sommaria): un gruppo di professori depressi e falliti decidono di bere ogni giorno per superare meglio le avversità della vita. La metafora punterebbe a descrivere l’apatia vissuta nei paesi nordici come la Danimarca. Una lettura meno “regionale” consente di inserire il film nel bacino più ampio del cancro tutto occidentale di spersonalizzazione dell’uomo contemporaneo, del frantumarsi di responsabilità e ruoli sociali nella cornice di una mancanza di contatto umano (sostenuto dalla recente morsa dell’isolamento che stiamo vivendo). Il titolo originale (Druk) sottolinea in maniera ancora più diretta l’operazione di un film così programmatico: ubriacarsi.
Al pubblico sedato da questa società reazionaria basta guardare dei personaggi che si ubriacano per ubriacarsi a loro volta, godendo nel riflettere su una questione morale tanto assurda da poter essere giustificabile soltanto in un film (davvero i protagonisti, professori liceali, si fanno intortare da una teoria “filosofica” per cui bere ogni giorno rende la vita più felice? Ma che teoria sarebbe?), fino a porsi la domanda fatale che ai più suonerà come una rivelazione: “Forse farsi una bevuta, però, non è mica così sbagliato…?”. Certo che no, ogni classico dai tempi del paleolitico si è assunto il temibile “rischio” di omaggiare l’estasi del bere (consigliamo agli interessati all’argomento uno a caso fra Ovidio, Benjamin o Bukowski. Per chi non avesse tempo da perdere anche il divertente Breve storia dell’ubriachezza edito da Il Saggiatore).
In tutto questo mare di desolazione (che non è la vita dei danesi, ma quello del cinema che racconta la realtà) manca il coraggio di proporre una visione veramente ebbra delle cose. Perché tutto quello che abbiamo visto dentro Un altro giro, per cui ci siamo esaltati discorrendone a lungo in un locale lounge davanti allo Spritz, e sentendoci quindi anche noi dei veri ribelli, tutto questo è solo piattume, finzione. Se l’intento di questo film era quello di provocare, c’è riuscito solo per sentito dire: come raccontare una storia pazzesca che non è capitata a te ma a un tuo cugino in Australia, molti anni fa.