Hogar in spagnolo significa focolare, famiglia. In Argentina è anche il nome dei centri di accoglienza religiosi che ospitano le giovani ragazze madri o in attesa di esserlo, che non sanno dove altro andare. Tra alte mura ricoperte di crocifissi e raffigurazioni cristiane si srotola la trama di Maternal (il cui titolo originale è appunto Hogar), produzione italo-argentina e primo lungometraggio di finzione della documentarista italiana Maura Delpero, presentato al 72° Festival di Locarno e ora finalmente in sala.
Attraverso nuove e poco indagate sfumature, Delpero dirige e scrive un’opera attorno al significato di maternità, considerata non tanto come condizione genetica e naturale, quanto come istinto e necessità profonda, al limite dello spirituale. Non ci sono volti maschili all’interno del film – sono nomi lontani, capaci comunque di palesare con pesantezza la propria esistenza – ma solo femminili: un coro di donne diviso in due categorie agli antipodi, coloro che sono diventate madri senza volerlo e coloro che madri non lo potranno mai essere.
Da un lato le suore, raffigurate nel pieno della loro austerità, dall’altra adolescenti stanche e ribelli alla prese con gestazioni, allattamenti, piccole vite da crescere e una, la loro, ancora da vivere. Alla pacatezza delle prime si oppone l’esuberanza e lo sprazzo energico delle seconde, in una profonda spaccatura che si perpetua anche all’interno della camera delle due diciassettenni Fati e Lu, amiche per necessità, ragazze madri tanto diverse quanto complementari.
Il procedere lento e incerto delle giornata nell’Hogar viene interrotto dall’arrivo di Suor Paola: di lei nulla ci viene detto; di certo il suo volto giovane, disteso e levigato sembra aver poco in comune con le espressioni vissute e severe del gruppo di suore. A differenza delle altre, Paola cerca un legame stretto – che altro non potremo definire se non materno – con Fati, che aspetta una bambina. Nel frattempo, Lu abbandona l’istituto lasciando sola sua figlia. Sarà Suor Paola a occuparsi di lei, superando moralmente quel confine così nitido e labile imposto dai futuri voti, fino a farla dubitare del proprio cammino religioso.
Quello della Delpero è un film di silenzi, di dialoghi ridotti all’essenziale. Non c’è passato, non c’è futuro: la regista fa una scelta molto precisa e azzardata, mettendo volutamente da parte non solo le esplorazioni psicologiche che si prestano a una tale trama, ma anche l’approfondimento del contesto sociale e politico dell’Argentina, paese in cui l’aborto è ancora a tutti gli effetti illegale. Non sappiamo cosa abbia portato all’hogar le protagoniste, quali siano le loro storie, quali violenze abbiano subito, non conosciamo niente di Suor Paola. Le suore non parlano, non esprimono giudizi, se non davanti al crocifisso; persino le lunghe conversazioni tra Paola e Fati ci vengono negate. Tutta l’attenzione della macchina da presa, così asettica, converge verso l’insieme delle espressioni e dei delicati e timidi gesti della cura, mossi da chi madre non lo è.
Il cinema ha raccontato più volte la maternità negata e l’esempio più recente ci porta a Pieces of a Woman: se l’opera di Mundruczó si apre con un lungo piano sequenza sul travaglio della protagonista, in Maternal il parto di Fati viene volutamente non mostrato, tanto da apparire come un preciso e dissonante taglio nella pellicola. La maternità raggiunge in quel momento l’apice dell’intangibilità, slegandosi dalle logiche comuni, tale che anche l’unico soggetto maschile del film, il piccolo figlio di Fati, diviene materno, prestando alla madre le attenzioni che lui avrebbe dovuto ricevere.
Del percorso e della scelta finale di Suor Paola ne prendiamo semplicemente atto. E giudichiamo, anche noi silenziosamente, riflettendo su cosa definisce una madre e di conseguenza una famiglia tale, sia sul piano emotivo ma soprattutto sociale, religioso, politico.
Ci vuole molto coraggio nel decidere di non orientare emotivamente il pubblico, nel non dirgli quello che vorrebbe sentirsi dire o dovrebbe pensare. La libertà di effettuare scelte prive di contingenze, negata a tutte le donne dell’hogar, si affianca a quella massima concessa allo spettatore. Te ne accorgi a film concluso, su quell’ultimo e congelato “zac” (un altro taglio), ascoltando i commenti degli altri spettatori confusi e disorientati, poco abituati a quel totale libero arbitrio a loro concesso.