With the hardwon recognition of their social and historical constitution,
gender, race, and class cannot provide the basis for belief in essential unity.
There is nothing about being female that naturally binds women.
D. Haraway
Habibi Collective nasce nel 2018 ed è un archivio digitale che utilizza e sfrutta a suo vantaggio le infinite possibilità di Instagram, allo scopo di creare uno spazio libero, immediato, indipendente, a chiunque accessibile, dedicato a opere di donne filmmaker provenienti dal Sud-est Asiatico e dal Nord Africa.
Nulla di particolarmente innovativo – all’apparenza – se pensiamo alla massiccia diffusione culturale che si svolge attraverso i social network, per non parlare della bulimia di profili e pagine dedicate all’arte cinematografica. Nell’attività condotta da Habibi Collective vi è però una finalità che oltrepassa il piacere divulgativo: la pratica svolta da Róisín Tapponi – creatrice e curatrice – si traduce in una tenace azione politica, il cui scopo è la destrutturazione di un sistema culturale stagnante e standardizzato che impedisce alle artiste di origine mediorientale di emergere sia come filmmaker, sia come donne. Una liberazione che si attua su più versanti, che interessa non solo l’immaginario femminile arabo, ricalcato su anni e anni di narrazioni occidentali stereotipate, ma decostruisce anche il modello monopolistico dell’industria cinematografica dominante.
Róisín Tapponi è programmatrice e giornalista.1 Figlia di padre iracheno e madre irlandese, attualmente vive e lavora a Londra e coltiva fin dalla prima adolescenza la passione per il cinema: «I’d just be watching films with a different director every night and I was wondering why I wasn’t watching films made by Arab women».2 Da questo presupposto nasce la sua ricerca che culminerà con la creazione di un profilo Instagram dalla marcata impronta curatoriale, il quale oggi, a distanza di poco più di due anni, vanta più di 26.000 follower. Il modus operandi è molto semplice, ovvero raccogliere sulla pagina una serie di titoli disponibili in chiaro su Youtube o Vimeo, e sfata la convinzione secondo la quale nel cinema non esistano abbastanza filmmaker di sesso e genere femminile: il problema, spiega Tapponi in un podcast dedicato, non è la mancanza di registe ma di un’industria che ne riconosca l’esistenza e appoggi il loro lavoro, in particolare in termini di supporto finanziario, distribuzione, circolazione e programmazione. Habibi Collective propone un ricco catalogo di opere indipendenti, spesso e pertanto amatoriali, che evidenziano la determinazione e il carattere del movimento femminista islamico.
Una narrazione necessaria che possa opporsi alle ripetute e inquinate rappresentazioni – tipiche dello sguardo coloniale – che dipingono costantemente la donna araba all’interno di situazioni di privazioni: come colei che repressa di ogni desiderio, si nasconde dietro un velo ed è incapace di ribellarsi ai dettami di una religione autoritaria. Questa idea è talmente insidiata che porta a immaginare l’intera componente femminile araba come un blocco conservatore indistinto, che per definirsi femminista dovrebbe inoltre riconoscersi negli stessi ideali di emancipazione occidentale. Al contrario delle stigmatizzazioni diffuse, una donna musulmana che decide – quindi sceglie – di portare l’hijab non è obbligatoriamente sottomessa al volere di qualcosa o qualcuno; tantomeno non è una donna priva di coscienza o libero arbitrio.
Il femminismo islamico raccoglie al proprio interno numerosi esempi di rivendicazione, ognuno con declinazioni politiche differenti, così come accade per il femminismo europeo o americano. Basta dare uno sguardo veloce al profilo di Habibi Collective per accorgersi della varietà performativa con la quale le donne hanno reclamato e continuano a lottare per la propria autoaffermazione: primo fra tutti il documentario Feminism Inshallah: A History of Arab Feminism (2014) diretto dalla regista tunisina Feriel Ben Mahmoud. Mescolando filmati d’archivio e interviste a numerose attiviste islamiche, l’opera ripercorre, attraversando le piazze di Tunisia, Egitto, Algeria, Marocco, Libano e Arabia Saudita, le battaglie condotte ciclicamente contro le violenze di sistemi politici conservatori e patriarcali. Emergono i film di patrimonio, parte di una storia del cinema oscurata, come Fatma (1975) di Selma Baccar, primo film non-fiction realizzato da una una donna in Tunisia. Si tratta di un saggio visivo, esplicitamente femminista – la cui proiezione fu fino a pochi anni fa proibita nel paese d’origine – che utilizza la performance e il found-footage per raccontare attraverso la protagonista, Fatma (in riferimento al nome con cui i colonizzatori francesi chiamavano le donne arabe), la storia delle donne maghrebine. Ad esso si affiancano opere maggiormente riconosciute, come il coming-of-age Marock di Laïla Marrakchi, presentato al Festival di Cannes nel 2005, ma anche la fiction Divines di Houda Benyamina, vincitrice della Caméra d’Or al Festival di Cannes nel 2016 e ora disponibile su Netflix.
Non mancano i riferimenti alle opere contemporanee, come Ishtar (2020) della video artista anglo-irachena Mia Georgis, un cortometraggio che ritrae divinità mesopotamiche gender fluid, o Arabiyyati (2020) di Remie Akl, artista e cantante libanese, che in occasione dell’International Women’s Day ha realizzato una breve opera sperimentale, un omaggio al piacere, alla sensualità e sessualità femminile, che ha mostrato al mondo sul proprio canale IGTV. Lo stesso IGTV è stato usato dalla regista Tania Safi in Sustainable Pads in Refugee Camps, un episodio della docuserie Shway Shway (2019) da lei creata che con delicatezza affronta le lotte intime delle donne, concentrandosi sulla creazione di assorbenti sostenibili per le ragazze e le donne rifugiate del distretto di Akkar in Libano.
Nuovamente, la potenzialità della rete diviene il mezzo per le donne arabe per esprimersi, riconoscersi, cercare il proprio luogo d’azione collettivo – in Paesi in cui spesso i filmmaker trovano ostacolo alla propria produzione artistica a causa delle forti censure – in relazione a quella connessione tra (arte) digitale e movimento sociale che già aveva caratterizzato le primavere arabe. Così, questo cinema collaterale, femminile e arabo che ci viene proposto sembra essere in grado di ri-farsi carico delle sue proprietà politiche, ancora una volta attraverso i generi del documentario, della video arte e del cinema sperimentale. Emerge la ricerca di nuovo linguaggio, personale, nel quale il grido di liberazione riesce a trapelare non solo dalle storie raccontate ma anche dalla forma con cui vengono esposte.
«There is nothing natural about film programming»3, dice Tapponi, in riferimento al ruolo del programmatore, la cui responsabilità deve essere l’inclusione di soggettività sempre più differenti. Questa sua rivoluzione curatoriale dal basso non è passata inosservata. È riuscita realmente ad attirare l’attenzione di organizzazioni e festival, proponendo rassegne presso istituzioni museali di risonanza mondiale come il MoMa o accademiche quali la University of California e la Northwestern University. Attraverso la propria attività sul web ha inoltre avviato un fundraising per la creazione di una piattaforma streaming indipendente – che ha già un profilo ben attivo su Instagram – chiamata Shasha Movies, priva di alcun sostegno istituzionale, dedicata al cinema Mediorientale e nordafricano la quale verrà inaugurata a breve, nel Marzo 2021.
Habibi Collective rappresenta una modalità giovane e ingegnosa di pensare il cambiamento del sistema cinematografico ed è la prova che un altro network, meno discriminatorio e più rappresentativo, è possibile.
1 Róisín Tapponi – https://www.roisintapponi.com/
2 RAWAA TALASS, Habibi Collective: Championing indie movies in the region, ArabNews, Gennaio 2021, https://www.arabnews.com/node/1800356/lifestyle
3 Róisín Tapponi, Episode 1 – Habibi Collective Podcast, spotify.it