«La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita.» scriveva Joan Didion in apertura del suo libro L’anno del pensiero magico. Se la verità di questa frase si applica alla vita di ognuno di noi, una velocità ancor più precipitosa segue l’esistenza di una ragazza di diciassette anni, cangiante e mutevole come un serpente che abbandona centimetro dopo centimetro la sua pelle.
La protagonista del film di Piotr Domalewski I Never Cry, presentato in anteprima italiana alla 32esima edizione del Trieste Film Festival, viene colta esattamente nell’atto della muta, con l’accelerazione che le tragedie impongono nella consapevolezza di un’adolescente. Ola (Zofia Stafiej) è una teenager come tante, vive con la madre e il fratello disabile, si scambia messaggi con un ragazzo carino e sogna di passare l’esame di guida per diventare indipendente e andare dove vuole. Dopo aver fallito il test per la terza volta, riceve la notizia della morte di suo padre, da anni emigrato in Irlanda, durante un incidente sul posto di lavoro. Incaricata dalla madre di recuperare la sua salma, Ola parte da sola per Dublino, e inizia una tragicomica odissea sulle tracce di un genitore che era per lei un fantasma ancor prima di scomparire.
Dopo il suo acclamato esordio Silent Night, Domalewski torna a trattare l’argomento della migrazione economica, stavolta attraverso lo sguardo rabbioso e tenero di una ragazza che cerca di farsi strada mentre affronta il lutto. Questione centrale nella società polacca, quella dei cosiddetti “euro-orfani” è una realtà di prolungate assenze e di distacco, che rende estranei i componenti di uno stesso nucleo familiare in una lontananza emotiva difficile da colmare.
Con onestà e semplicità, la camera a mano di Domalewski segue Ola che corre, cammina, si affanna per trovare soluzioni a problemi più grandi di lei, spesso molto pragmatici, legati all’esperienza della morte di una persona cara, come organizzare un funerale con tanto di trasferimento della bara da un paese all’altro. Determinata e coraggiosa, capisce presto di avere improvvisamente una nuova responsabilità nei confronti della sua famiglia e supera gli ostacoli che incontra con caparbietà. Circondata da adulti che la ignorano o sopravvalutano la sua capacità di sbrigarsela da sola, Ola capisce gradualmente che quel suo viaggio, più che restituirle il corpo di suo padre, sarà un’occasione per raccogliere le ultime testimonianze di chi lo conosceva, e cercare nelle parole degli altri un ricongiungimento impossibile con un genitore part-time, come lo definisce lei stessa. Passando dalla rabbia alla complicità, la ragazza inizia lentamente a comprendere le difficoltà vissute dal padre, e a empatizzare con la sua vita fatta di errori ma anche di tentativi, seppur lasciati a metà, di costruire per la propria famiglia un futuro migliore.
L’attrice non professionista Zofia Stafiej restituisce al personaggio ogni sfumatura cromatica dell’orizzonte emotivo di Ola, sposandosi alla perfezione con lo stile realistico e asciutto di Domaleski, che richiama a tratti i drammi sociali di Ken Loach. Con la fiducia reciproca resa evidente in ogni inquadratura, regista e protagonista si addentrano insieme in un’intimità dolorosa, senza che si perda mai la speranza o lo spirito grazie ai quali oltrepassarsi, superarsi al di là del rancore, ricongiungersi nell’ultimo viaggio rubato che sarà il gesto d’amore e di commiato di una figlia. [Carlotta Centonze]
Paesaggio nella nebbia
“Con straordinaria costanza mi capita di fare sempre lo stesso sogno: è come se volesse costringermi a tornare inesorabilmente in quei luoghi a me così dolorosamente cari, a un tempo dove c’era la casa di mio nonno, nella quale vidi la luce più di 40 anni fa, proprio sulla tavola da pranzo, coperta da una bianca tovaglia inamidata. E, ogni volta che cerco d’entrare nella casa, qualcosa me lo impedisce. Faccio spesso questo sogno, ci sono abituato. E non appena vedo le pareti di legno scurite dal tempo, e la porta socchiusa che si apre nel buio dell’ingresso, so già, anche nel sonno, che si tratta solo di un sogno, e la mia incontenibile gioia si spegne nell’attesa del risveglio. Talvolta succede qualcosa per cui smetto di sognare la casa, e i pini della mia infanzia. Allora mi assale la nostalgia, e io comincio ad aspettare con ansia il ritorno del sogno, nel quale mi vedrò di nuovo bambino e tornerò ad essere felice. Felice perché tutto è davanti a me, e tutto è ancora possibile.” Lo Specchio, Andrej Tarkovskij
Quello che Hilal Baydarov mette in scena in In Between Dying è un ritorno a un cinema libero, che si nutre di poesia e non ha paura a dichiararlo costantemente. Tra le pieghe del viaggio improbabile di Davud, un ragazzo che sfugge a un regolamento di conti e che durante questa fuga causerà incidentalmente continue uccisioni, il regista azero include tutto l’onirismo che serve per trasformare un semplice percorso dell’eroe, con una specificità narrativa molto marcata, in una sommessa dichiarazione di impotenza dell’essere umano nei confronti del divenire di ogni evento privato. Ed è esattamente a questo che serve l’intenso ruolo della poesia secondo Baydarov, a rivelarci quanto la nostra vita non sia in realtà “nostra”, ma avvinghiata a una cosmogonia difficile da poter dominare. L’errore originario di Davud è la prima uccisione, così come la colpa primigenia dell’esistenza è l’aspirazione al dominio, che ad altro non porta se non a una violenza imposta, a una natia cecità, a una sepoltura da vivi. L’ideale, l’auspicabile determinismo che è il fine di ogni progetto umano in questa storia, è esterno alle vicende reali, e si compie all’interno di parentesi, la famiglia sognata da Davud difatti quasi non è di questo mondo, quasi non è umana.
In Between Dying, già presentato a Venezia e ora alla 32esima edizione del Trieste Film Festival, si compie servendosi (o sarebbe più corretto scrivere “diventando strumento”) di quel senso evanescente che il cinema ha saputo tratteggiare così bene all’interno delle filmografie di Andrej Tarkovskij e Theo Angelopoulos, restituendoci attraverso dei lunghi quadri il senso della realtà, proprio come la poesia scritta ci restituisce il senso delle parole. Se Nietzche sosteneva che la parola si usura come la moneta, mutando di passaggio in passaggio, la poesia ha la capacità di mondare ogni vocabolo dal sudiciume del Tempo e della Storia, restituendole quel senso incontaminato che è proprio della forza che l’arte imprime su ogni anfratto del percepibile e dell’invisibile; un cinema quindi che si pone come chiarificatore delle sovrastrutture del reale proprio attraverso la poesia non fa altro che compiere un radicale esercizio di pulizia, liberandosi anche paradossalmente di se stesso e non avendo paura di osare, come capita di vedere sempre meno spesso. Per questo Baydarov non ha paura di inserire nel filmico e nel profilmico riferimenti evidenti a testi letterari, didascalie che dividono la storia in capitoli, piuttosto che dirigere i suoi attori quasi come maschere dai movimenti innaturali, spiccatamente simbolici, perché il cinema qui è atto di sincerità espressiva, e in quanto tale non può far altro che cadere fuori dal tempo, in un senso tale da essere in grado di conformarsi a ogni era.
Il percorso marcatamente anti teleologico di Davud non è un’inversione di senso in opposizione alla drammaturgia classica, ma è anzi qualcosa che questa drammaturgia la rivendica, ma nel rivendicarla la stilizza, la pulisce appunto da ogni stratificazione del tempo. Con In Between Dying da questo punto di vista non siamo affatto in un film del 2020, sono pochissimi infatti i riferimenti all’era presente, in un Azerbaijan atavicamente intrappolato tra le sue montagne, dove ogni donna e ogni uomo sembrano spezzati dall’ambivalenza del loro essere al mondo. “Mi trascini verso di te con corde invisibili”, sussurrerà Davud alla sua sposa ideale, e questo trascinare racchiude tutto il senso di una forzosità che ci porta inevitabilmente ad aspirare a un determinismo, che sia esso sentimentale o più generalmente esistenziale. In questo senso tutti gli incontri di Davud sono epigoni del suo desiderio di completezza, destinati quindi a morire, o quasi a scadere. Fino a quando, in un finale inevitabile, il ritorno del figlio al prodigo segnerà l’unico punto di fuga di questa scissione, l’unica possibile conclusione di una vita passata a cercare di raggiungere l’irraggiungibile: la perdita. [Mario Blaconà]