Nel film Synecdoche, New York l’esordio alla regia di Charlie Kaufman, Caden allestiva con legno e ferro una città altra, topograficamente e sentimentalmente identica a quella in cui aveva trascorso la sua esistenza: annotando nella mente ogni evento e dialogo, li riproponeva nel suo teatro privato in un format di sensazionale iperrealismo. E questo per raccogliere la sua vita e riallinearla, allontanandosi una volta per tutte dalla stessa e rimodellandola alla giusta distanza, con insopportabile e ingiustificato ascetismo. Vien quasi da pensare che il quartiere che vediamo in Nimic sia una piccola porzione dell’ecosistema Caden, e che Lanthimos si sia semplicemente intrufolato tra le costruzioni per documentare una follia virulenta che serpeggia tra gli attori. Il cortometraggio termina infatti all’interno di un, neanche a dirlo, distopico loop, rendendo inevitabile pensare che quello che abbiamo visto non sia un fenomeno a sé stante, solitario quanto singolare, ma uno dei tanti momenti della fase di contagio.
Così come al protagonista viene rubato il personaggio, la ragazza che lo insegue avrà certamente perso il proprio lungo la strada; lo stesso accadrà alla prossima vittima. Il germe non necessita contatto fisico per espandersi, ma solo uno scambio di battute: “Do you have the time?”. Gli uomini sono alla forsennata ricerca del ruolo che devono coprire nel teatrino di Caden, che è poi il loro unico posto sicuro nel mondo; chi rimane senza copione è solo e perduto.
Lanthimos si addentra nella paura moderna della perdita dell’identità, della nostra facile sostituibilità: Nimic, che nella lingua rumena indica il nulla, il niente, è ciò che diventiamo quando perdiamo la nostra casa, la nostra famiglia, il nostro lavoro. Ciò che accade anche al violoncellista che, un giorno qualunque, si vede letteralmente sostituito da terzi. E nonostante il fatto che per definirci tendiamo a sfruttare e a prendere in considerazione solo i grandi denominatori (di nuovo: casa, famiglia, lavoro) tralasciando le sfumature, il regista decide di capovolgere questa dinamica a suo favore. Così come per sostituirsi al suo bersaglio la donna ne mima l’andatura e il modo in cui si siede, per riconoscere chi dei due sia “quello giusto” la scelta comune è di aggrapparsi alle piccole connotazioni dell’intimità, ai dettagli; uno dopo l’altro, lui e lei si adoperano in una prova di riconoscimento emotivo. La moglie studia la callosità dei piedi e il ritmo del respiro per differenziare il marito dall’impostore, nel tentativo di connettersi con qualcosa che superi i citati fattori comprimari della vita; tuttavia, fallisce. A partire da questo ribaltamento la realtà si piega sotto l’incubo, la ladra si trasforma in lui, e lo sostituisce nella genitorialità, nella coppia; indossa un suo pigiama e si reca in sala, dove le prove musicali sono terminate ed è ora suo il compito di suonare (sgraziatamente) il violoncello di fronte al pubblico che lo/la attendeva.
Su questa base si innesta poi una seconda questione: nella sequenza finale, l’imbrogliona sta facendo colazione; se la sua prossemica è bene inserita nel classico quadretto famigliare, lo sguardo tradisce una forma di irrequietezza, di disagio e confusione. L’uovo, abitudine alimentare del precedente sé, viene divorato goffamente: è un’immagine fuori luogo, un paio d’occhi che disturbati e spalancati si accorgono che non è così semplice come si immaginava, infilarsi nei panni di qualcun altro. La capacità di recitare, di rimanere nella parte e di essere quindi sé stessi e quello soltanto, è già svanita.
Per dire questo, l’autore non si evolve né allontana rispetto ai suoi soliti schemi; abbraccia, in 12 minuti, scelte registiche che già conosciamo e che spesso ci hanno permesso di riconoscerne la mano: i dialoghi brevi e nonsense, l’uso del fish eye a deformare ciò che stiamo osservando, rendendo l’oggetto del discorso lontano da noi e, contemporaneamente, noi maggiormente coinvolti, osservatori della scena messi dolorosamente all’angolo, fino ad arrivare al momento in cui i due lui si trovano insieme nello stesso salotto davanti alla compagna e ai figli, come accadde, per gestione degli spazi e dinamiche tra i personaggi, ne Il sacrificio del cervo sacro.
Se questa “coerenza poetica” sia un pregio o un difetto resta, ancora oggi, difficile da capire.