Come tutti i labirinti di David Fincher, anche Mank offre diverse porte d’accesso. In molti, in questi giorni, hanno scelto di entrarvi dal cancello principale, ovvero la via del raffronto storico. Altri, invece, ne hanno messo in discussione l’operazione mimetica nei confronti del cinema degli anni Trenta. Infine, c’è stato chi ha analizzato le modalità attraverso cui il film di Fincher omaggia ed emula l’incedere rivoluzionario di Quarto Potere, con i mille frammenti impazziti di punti di vista “che rimbalzano nel tempo come fagioli messicani”, come viene fatto notare a Mank in una delle scene del film.
Tutte letture legittime, ma che, alla luce del percorso di Fincher e della visione di Mank, appaiono sterili, come se il film fosse stato osservato a distanza, attraverso le fessure del cancello, senza mai varcare la soglia. Che questo finisca per rivelarsi un indicatore illuminante dello stato della critica, in questa fase di cambiamento dei paradigmi dell’audiovisivo, è un dato che aggiunge interesse al film di Fincher. Anche la sua accoglienza così contrastante – sui social si è passati in pochi giorni dal capolavoro conclamato al dileggio collettivo (con tanto di rimostranze etiche e morali) – ne fa indubbiamente uno dei case study più significativi per indagare la ricezione filmica contemporanea. Ma, allo stesso tempo, il dibattito sollevato suona quasi come un invito ad attraversare il film in altre direzioni. Perché se è vero che Quarto Potere rimane l’oggetto di riferimento – ripensato alla luce del presente e dell’investimento intellettuale del padre di Fincher, un “secondo Mank” a cui rendere giustizia sin dai titoli di testa, dove è presentato come unico sceneggiatore – il regista sa anche che il gioco operato allora dal film di Welles oggi sarebbe improponibile. O, meglio, funzionerebbe solo a rovescio: non presentando la realtà sotto le spoglie della fiction, ma evocando il nostro mondo evanescente, finzionale e mediatizzato sotto le spoglie della storia documentata. Per questo, quello che chiede anzitutto Mank a chi gli si accosta, è di provare a rivoltare il guanto: cercare al suo interno ciò che è finto, anziché lanciarsi in un’euristica del vero. Da questa prospettiva assumono significato anche le piccole finestre sinora trascurate, rivelandosi passaggi segreti verso il cuore di Mank.
Tra tutti i personaggi che circondano lo sceneggiatore, ad esempio, ve ne è solo uno a cui è possibile attribuire un arco narrativo completo e a suo modo classico, lineare: Rose Alexander, la dattilografa. Una rosebud già sbocciata – lo suggerisce già il suo nome – che aiuta lo sceneggiatore nella perigliosa stesura del testo. La custode del noto blocco a spirale è letteralmente il medium che consente a Mank di portare a termine il suo (loro? di Welles?) capolavoro. Non solo perché si occupa di tenere il passo alla creatività sfrenata dello sceneggiatore, trascrivendone ogni lampo di genio, e soccorrendolo nei momenti in cui l’astinenza da alcol si fa più atroce, ma anche perché, con la propria storia personale, riesce ad accompagnare Mank alla scoperta di sé. All’inizio del film, uno degli scambi più chiarificatori della personalità del protagonista avviene quando la donna riceve una lettera che la informa della scomparsa del marito militare in mare. Lo sceneggiatore si è appena preso gioco di quel soldato sconosciuto ma, al sopraggiungere di quel pezzetto di realtà nella fabbrica dei sogni, prova per la prima volta una reale partecipazione al destino altrui, liberandosi dal sarcasmo che lo ha sempre protetto da reali coinvolgimenti. Proprio in questo istante, Mank sembra anche rendersi conto di vivere in una condizione affine al soldato, e di essere lui pure, in fondo, un naufrago in un mare di mutamenti – culturali, storici, tecnologici – che le persone che lo circondano sembrano del tutto impreparate a comprendere. Basti pensare ai dialoghi nella magione di William Randolph Hearst su Hitler, sminuito al pari di un innocuo fenomeno di passaggio, o alle incertezze per l’introduzione del sonoro, o ancora agli scenari drammatici aperti dalla crisi del ‘29. È per questo che la risoluzione della parabola narrativa di Mank non sembra corrispondere tanto alla consegna dell’Oscar alla migliore sceneggiatura, quanto al sopraggiungere della notizia che il marito di Rose si è salvato. Perché se è stato possibile riaffacciarsi alla vita per un uomo disperso nel mare norvegese durante un conflitto mondiale, probabilmente lo sarà anche per lui. Scegliere di apporre una firma alla sceneggiatura conclusa diviene allora per Mank un ulteriore modo per ridurre la lontananza tra sé e l’altro, tra ciò che ha prodotto in quanto anello di una catena di montaggio e la propria identità di artista. Per assumere tutto il peso del ruolo – codardo, talvolta remissivo, ma lucido – che è riuscito a svolgere nella storia.
Il discorso sull’autorialità sviluppato nel film non riguarda solo, quindi, i contrasti con Welles e il dibattito aperto da Pauline Kael: quella sviscerata da Fincher, più che una questione di paternità creativa o di giustizia storica, appare una riflessione sul concetto di responsabilità individuale. È la responsabilità, infatti, il vincolo a cui Mank si è sottratto per tutta la vita, come qualcuno gli imputa. Ed è la responsabilità ciò che la sconfitta elettorale di Upton Sinclair e il suicidio del collega gli permettono di riscoprire. L’antagonista della storia, in questo senso, non può essere la presenza fantasmatica ma ingombrante di Welles; piuttosto, quella di chi lavora per costruire un apparato di deresponsabilizzazione di massa, usando l’arma che tutto può, persino rispetto al sarcasmo di Mank: le emozioni. Louis Mayer, occhialuto burattinaio egregiamente interpretato da Arliss Howard, sa bene dove queste ultime vadano a colpire (lo mima chiaramente: al cuore, al cervello, alle parti basse…) e come possano essere sfruttate in ambiti che vanno ben oltre la sfera dell’intrattenimento. Lo dimostra, prima ancora che nell’affaire Sinclair, nel suo modo di relazionarsi ai dipendenti, con il suo spettacolo patetico volto a ingraziarsi l’uditorio e a imporre il proprio volere. D’altra parte, non sono proprio le emozioni e l’ironia gli strumenti con cui anche oggi si delegittimano candidati politici, si costruiscono brillanti carriere e si asfaltano i diritti dei lavoratori?
Rovesciando il guanto, scopriamo così che Mank è il Mankiewicz di ieri, ma è anche un personaggio che oggi ci invita a sfidare la nostra indifferenza e distanza dalle cose del mondo. E che i flashback del film sono in realtà flashforward: previsioni su un nuovo sistema di cui non si conoscono ancora le proporzioni né le dinamiche interne. Un sistema integrato e iperproduttivo nel quale chi si occupa della “parola” rischia di ritrovarsi, ancora una volta, a essere considerato come negli anni Trenta “solo uno scrittore” (e chi realizza immagini, forse, “solo un regista”). Dalla finestra che abbiamo aperto, il gesto di Fincher di apporre la propria firma su ogni aspetto del suo film, finanche il supporto delle immagini, appare allora una dichiarazione di responsabilità, più che un atto irrispettoso o di dubbio gusto. Una rivendicazione di identità, più che un asservimento ai nuovi potenti.