Uno dei molti discorsi affrontati oggi per raccontare e analizzare i punti nevralgici del contenente-cinema è la sua possibilità di essere ancora politico, di immettersi cioè come grande veicolo di un impegno sociale non limitandosi a narrarlo, ma modellando la sua forma sulla possibilità di adottare un senso che possa essere congenitamente controcorrente. Sono poche le opere cinematografiche che riescono a inserirsi in questo assioma, da un lato perché stiamo parlando di un confine molto sottile, superato il quale si rischia di sprofondare nella confusione tematica o stilistica, dall’altro perché modificare il codice di fruizione tradizionale porta inevitabilmente verso una dimensione periferica, intrappolandosi nel paradosso di un film che parla del popolo ma che a questo popolo non riesce ad arrivare, perché si rifiuta di conformarsi al ritmo o al cliché con cui quest’ultimo viene ammansito e, a conti fatti, distratto, trasformato in folla.
In questo paradosso si muove con impressionante agilità El año del descubrimiento, di Luis López Carrasco, presentato al 40° Filmmaker Festival di Milano, ricercando in corso d’opera uno sguardo che riesca a rintracciare l’origine del disagio della classe operaia spagnola, attraverso una mimetizzazione con un’immagine consunta intrappolata in un nastro magnetico Hi8, come quelli che i nostri genitori maneggiavano per filmare le vacanze estive, o i momenti in famiglia (mi riferisco a chi, come probabilmente molti dei nostri lettori, è nato negli ambigui anni Novanta), e riportando alla mente attraverso le testimonianze dei vari avventori di un bar di Cartagena gli eventi che condussero a una rivolta dei lavoratori che, esasperati dalla crisi economica, decisero di bruciare il Parlamento della regione.
Carrasco è ben consapevole che “militare”, nell’immagine-movimento, deve essere un verbo che parte da un impegno, da una fatica per lo spettatore, che deve introdursi in un percorso di scoperta dei limiti del suo sguardo, superati i quali, a un certo minutaggio del film, che può variare da individuo a individuo, le sovrastrutture di una drammaturgia retorica e qualunquista si minimizzano e si riesce quindi a entrare nel cuore del sottotesto veramente politico dell’opera. Proprio per evitare un annebbiamento della consapevolezza, così come le Olimpiadi e l’Expo del 1992 in Spagna nascosero il malessere latente dei lumpenproletariat iberici, il regista si serve esclusivamente di una serie di talking heads, affidando alle sincere e sofferte testimonianze dei personaggi ogni secondo delle tre ore del film e squarciando lo schermo attraverso uno split screen che denuda il trucco del montaggio. Con questo schema la messa in scena permette di spostare l’occhio dello spettatore sull’importanza del tema, piuttosto che sulla bellezza, spesso fuorviante, dell’inquadratura.
È da questa semina che i discorsi dei protagonisti riescono a travalicare il tempo e lo spazio contingente, raccontando nel medesimo istante il 1992 e il 2020, la Spagna e l’Europa intera, e rivelando attraverso la militanza della forma che si fa costruttivamente contenuto quella ciclicità a cui la Storia del ventesimo e del ventunesimo secolo dovrebbe ormai averci abituati, ma la cui evidenza viene spesso depistata da quel potere spettacolare di cui molto cinema (anche documentario) non riesce ancora a fare a meno. Ricostruendo come antefatto attraverso queste voci le vicende di una nazione uscita a fatica da una dittatura di quarant’anni e tradita dalle promesse di una social democrazia trasformatasi in uno degli avamposti più reazionari del capitalismo contemporaneo, e portando lo sguardo all’altezza di questa frustrazione così ché lo spettatore stesso diventi uno dei clienti del bar, risulta possibile discutere anche (e forse soprattutto) di lotta di classe, di femminismo, di politica economica e addirittura, di futuro.
El año del descubrimiento assume lo spessore di un vero e proprio processo rivoluzionario perché, come sostenuto da uno dei testimoni principali, è dalla necessità, dal malessere, e di conseguenza dall’empatia comune che si riesce veramente a solidarizzare con chi lotta anche attraverso gesti radicali come bruciare uno dei simboli dello Stato, e a dargli ragione, per rendere palese quella resistenza sotterrata da chi ci vorrebbe tutti soli e distratti. Togheter we stand, divided we fall.