E adesso aspetterò domani
Per avere nostalgia
Signora libertà signorina anarchia
Così preziosa come il vino
Così gratis come la tristezza
Con la tua nuvola di dubbi e di bellezza
(Se ti tagliassero a pezzetti, Fabrizio De André)
C’è un mondo che si frappone tra Maria e il suo passato, un mondo che non le permette né di capire se stessa né tanto meno di comprendere le motivazioni che partendo da decenni addietro si conficcano nel suo presente, trasformandola in una donna smarrita, rancorosa e incapace di vivere con gli altri. Di questo mondo, in Il buco in testa di Antonio Capuano, presentato al 38° Torino Film Festival, fa parte anche il cinema.
Partendo da un’inquadratura che simula il primo film della storia (o della Storia), L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat di Auguste e Louis Lumière, e filtrandola con un bianco e nero quasi documentaristico che disorienta fino a disturbare, Capuano pone già in nuce il cinema che metterà in scena: aspro, dislocato e ostativo. Il film è testimone e artefice di una finzione che recupera una realtà smarrita di una generazione monca, perché privata della propria consapevolezza politica e sociale, una generazione di cui Maria, figlia di Mario, un poliziotto ucciso a Milano durante gli Anni di Piombo da Guido, un attivista di Autonomia Proletaria, è portavoce muta spiritualmente, a fare da contro altare a una madre che invece lo è fisicamente.
Questo mondo che funge da ostacolo tra Maria e il passato della propria famiglia e del proprio Paese è veramente vario. C’è l’alienazione sociale di una donna che non si fida degli uomini perché privata da subito di un riferimento paterno, e che quindi interpreta una relazione solo come un cinico scambio, c’è lo sfilacciamento sociale di una terra afflitta dalla violenza e dalla prevaricazione della camorra, c’è lo scollamento e l’astio tra due generazioni, e in fondo c’è un’origine, sbiadita, in cui il bianco e nero ritorna per riportarci a una dimensione di tangenzialità e lontananza, che è la fine di un sogno di lotta che quarant’anni prima aveva provato a cambiare questo lento decorrere della Storia (o della storia – di questo film) verso la sua fine.
L’incontro tra Maria e Guido non è altro che il disvelamento di una sconfitta, quella di una rivoluzione tramutata in una serie di esecuzioni sommarie, una sconfitta che paradossalmente Maria riesce a mettere a fuoco, venendo a capo di un malessere profondo di cui non aveva mai compreso le abissali sfumature, riuscendo a posizionarsi all’interno di un percorso cronologico, collocandocisi socialmente e generazionalmente. Perché a conti fatti l’unico punto di partenza per provare a ricostruire e ricostruirsi è la piena consapevolezza di chi siamo all’interno della collettività che ci ha forgiato.
Il buco in testa è un film amico e nemico della sua protagonista, amico perché veicolo di un, seppur violento, sincero processo catartico, nemico perché non ne risolve i problemi, non ne avvalla o giustifica il dolore, ma lo colloca semplicemente all’interno di quel “pessimismo attivo” che è rimasto l’unico modo per resistere, come sostiene qualcuno di cui ha scritto Davide nel pezzo qui sotto. Una presa d’atto della disfatta insomma, come del resto confessa Guido con il volto piegato in due dal senso di colpa e dalla stanchezza mentale.
Per Noi, quindi, è la fine del mondo, in opposizione a una sua narrazione che si ripete ciclicamente. Rimaniamo impotenti su una spiaggia abbandonata, in riva a un mare inquinato, vedendo palesarsi davanti ai nostri occhi un concetto che nel passato abbiamo provato a circumnavigare, ma che oggi ci sembra insormontabile quasi come un lutto: l’utopia.
T’ho incrociata alla stazione
Che inseguivi il tuo profumo
Presa in trappola
Da un tailleur grigio fumo
I giornali in una mano
E nell’altra il tuo destino
Camminavi fianco a fianco
Al tuo assassino
[Mario Blaconà]
La Storia siamo Noi
Con la lettera maiuscola, Lacan ha condotto il senso di Alterità a un nuovo livello simbolico. Qualcosa di simile vale per il concetto di “Storia”, che grazie a quella esse più importante delle altre, ci fa subito capire che stiamo parlando della grande narrazione: l’insieme degli avvenimenti che hanno trasformato la vita degli uomini, come ha scritto Mario qui sopra. Come sappiamo, Elsa Morante scelse proprio La Storia come titolo per il suo libro più prezioso. Con l’avvento della globalizzazione e il proliferare di punti di vista sul mondo, si è smesso di parlare con la “esse” maiuscola e si è incominciato a farlo usando il plurale. Suole di vento, storie di Goffredo Fofi, non fa parte di nessuna delle due categorie. Sarà perché Goffredo ha sempre avuto da ridire, sia contro Lacan (durante i suoi corsi, aveva occhi solo per la giovane moglie Sylvia Battaille) che con la Morante: “una volta mi toglieva il saluto lei, la volta dopo ero io”. La verità è che pochi uomini come lui possono permettersi di raccontare così tante storie vissute sulla propria pelle e che appartengano, allo stesso tempo, alla storia d’Italia, quella con la esse maiuscola.
Il film, presentato al 38° Torino Film Festival e realizzato da Felice Pesoli per Avventurosa, è una lunga intervista all’amico, costellato di documenti e splendidi filmati d’archivio (il montaggio è di Aline Hervé). Prevale la parola scritta del diretto interessato, ma soprattutto quella detta, con cui l’intellettuale ante-litteram racconta sé stesso e gli amici di una vita, le lotte e le sconfitte, con umiltà e sprezzante ironia.
Figlio di contadini, Fofi passa l’infanzia a Gubbio per poi trasferirsi, in veste di maestro, in una Sicilia segnata dalla fame e dalle privazioni. Lì incontra Danilo Dolci e assieme ai suoi compagni diventa attivista del movimento pacifista. Un evento che segnerà per sempre la sua concezione di intellettuale, strettamente connessa al lavoro sociale e alla didattica, distante dai salotti borghesi del tempo. Sarà poi il turno di Roma e delle prime esperienze dirette con il cinema (di cui ci viene svelata una comica partecipazione come comparsa per Ben Hur), per poi spostarsi a Torino e schierarsi nelle proteste della lotta di classe. Finalmente fuori dall’Italia, a Parigi, “dove vissi la mia vera giovinezza”. La cinefilia, la collaborazione a Positif (“noi eravamo di sinistra, i Cahiers di destra”). E poi Napoli, Bologna…uno spirito randagio e in continuo movimento. Come il vento, appunto.
Il ritratto di un uomo che si racconta senza mai mettere davanti sé stesso (“Io io io, sempre questo io! E gli altri allora?”). A sostenere le sue storie, lo sterminato elenco di riviste che ha fondato e in cui ha collaborato: Quaderni Piacentini, Ombre Rosse, Dove sta Zazà, Lo straniero, Gli asini. Ogni editoriale è la testimonianza di una presenza attiva alle grandi rivoluzioni culturali del nostro Paese. Un intellettuale che ha sapientemente scelto il metodo didattico per fare contro-informazione, che incentiva allo studio (dato che “gli intellettuali di oggi sono degli ignoranti”), che invita a creare rete, a resistere e a rompere i coglioni. Volenti o nolenti, siamo tutti debitori dell’impegno di Goffredo. Sono parecchi gli artisti e gli scrittori che ha supportato, senza però smentirsi mai e sapendo colpire chi, giunto al successo, andava perdendo il contatto con le cose (da questa sua inclinazione gli è stato affibbiato il nome di “tiratore al piattello”). La riconoscenza di chi ha ricevuto molto è testimoniata dalla partecipazione dei tanti illustratori che hanno collaborato con lui negli anni, per impreziosire le sue riviste, e che per Suole di vento hanno realizzato bellissimi disegni animati (tanti i nomi: Mattotti, Scarabottolo, Elfo, Gipi, Massi).
Non ci dimentichiamo di quel che Fofi ha fatto per il cinema: oltre ad aver portato all’attenzione dell’intellighenzia la figura di Totò, il vero specchio del popolo “volgare” perché affamato di pane e di sesso, aggiungiamo il sostegno negli ultimi anni ai grandi autori del nostro cinema indipendente, cari a questa redazione, come Pietro Marcello, Alice Rorhwacher, Roberto Minervini.
La sua formula è sempre stata “pessimismo attivo” ma con la testa al “volontarismo etico”. Le mani a frugare fra le carte, la mente che vola altrove. Il suo viaggio non è ancora finito. [Davide Perego]