“Consider, to begin with, the statements “The sun always moves” and “The sun never moves” which, though equally true, are at odds with each other. Shall we say, then, that they describe different worlds, and indeed that there are as many different worlds as there are mutually exclusive thruths?”
Ways of Worldmaking, Nelson Goodman
Avere fede nelle immagini, in una società contemporanea che regge la propria promessa di stabilità e progresso apparentemente su di esse, o su una loro versione declinata in asservimento, consumo e simulazione di una realtà posticcia e fintamente semplicistica, sembra paradossalmente impossibile, o quanto meno altamente improbabile. Recuperare una forza dislocatrice che sia in grado di esplicarsi attraverso un’idea più fluida, stratificata e pura di se stessa, è impresa per pochi, e per chi nello specifico continua a fare della sperimentazione l’unica via per riscoprire e riscoprirsi attraverso la visione, per chi quindi pone nella ricerca costante l’unica chiave di lettura per appropriarsi di un nuovo mondo, che sia allo stesso tempo un riflesso di quello originale ma anche essenza a se stante, carica di nuove percezioni e concettualità.
Da questa eterna scaturigine parte l’ultima opera di Ben Rivers, Look Then Below, presentata in apertura della sezione “Doc Explorer” al 61° Festival dei Popoli e terzo capitolo di una trilogia con testi curati dallo scrittore di fantascienza Mark von Schlegell (dopo Slow Action e Urth), in cui esseri futuristici si nascondono in un distopico paesaggio naturale che si perde nelle profondità del suolo, messo in scena tra le Wookey Hole Caves nel Somerset.
In questo ambiguo futuro, sorto sui resti di antiche civiltà, è l’immagine stessa a essersi convertita. Ogni superficie si capovolge nel suo negativo, dando alla luce quella fosforescenza soprannaturale che ricorda quella degli effetti visivi propri dei film di fantascienza degli anni Cinquanta e Sessanta (torna alla mente Viaggio al Centro della Terra di Henry Levin, per i colori e la mappatura delle superfici), di cui Rivers si serve perché il video e l’audio bastino a se stessi nella loro primigenia spettacolarità. Da qui nasce quella fede totale verso cui lo spettatore viene calamitato da subito, anche grazie a un voice over che attraverso la forma poetica contribuisce a sostenere questo percorso di riscoperta di un sense of wonder rigenerato proprio dalla sperimentazione più radicale, che il regista inglese incorpora da anni grazie a opere come Ghost Strata, The Sky Trembles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers, The Creation As We Saw It, senza perdere il contatto con un certo cinema delle origini, da Fritz Lang a Carl Theodor Dreyer, in cui l’immagine non aveva necessità di essere sostenuta da nulla se non da se stessa.
È in questo senso di indipendenza del cinema dal mondo che il microcosmo ricreato da Ben Rivers in Look Then Below si afferma, riuscendo a diventare simultaneamente vero e incommensurabile, astratto e profondamente reale, per riportarci a spalancare gli occhi, per ora davanti al piccolo schermo, speriamo presto in sala, per tornare a meravigliarci insieme. [Mario Blaconà]
Per vedere il film: https://www.mymovies.it/ondemand/popoli/movie/look-then-below/
Rimozione e sentimento
Partendo da un personalissimo trascorso autobiografico, il nuovo documentario di Duccio Chiarini è una ricognizione sulla dolorosa parabola novecentesca italiana, sondata tra pubblico e privato, che riavvolge il nastro del passato individuando nella figura perduta del bisnonno del regista, reduce della prima guerra mondiale e poi fedelissimo esponente del partito fascista, il personaggio chiave per costruire un mosaico problematico su un secolo contraddittorio e a tutti gli effetti irrisolto, non solo per la famiglia dell’autore, ma per un paese intero.
Presentato in apertura al Concorso italiano, L’occhio di vetro – titolo/metafora che rimanda al personaggio e al contempo alla miopia storica che fece scivolare buona parte della nazione nelle lusinghe impossibili del ventennio, presto smascherate dalla tragedia della seconda guerra mondiale – non si affida semplicemente al ricco materiale d’archivio ufficiale a sua disposizione, ma lo aggancia alle testimonianze private della famiglia del regista, in particolare alla lettura dei diari del prozio Ferruccio, per intervallarlo a momenti di cinema in prima persona che ritraggono Chiarini accanto ai suoi genitori, già protagonisti del precedente Hit the Road, Nonna, mentre viaggia dalla natia Toscana ai luoghi della Repubblica di Salò, in cerca di prove, testimonianze, riscontri.
Il risultato è un film di disarmante sincerità – cifra strutturale nel cinema del regista, sempre sospeso tra le domande del presente e le mancate risposte del passato – dove il silenzio che circonda il “ramo” fascista della sua famiglia continua a ripresentarsi nel tempo come un inquietante, assordante rumore di fondo. L’indagine risponde al desiderio di ovviare a una rimozione ben più che soltanto privata, ma si accompagna alla consapevolezza che il fascismo è stato un clamoroso errore con cui il nostro DNA di italiani ancora oggi deve fare i conti, mettendo in gioco se necessario anche la pena verso la follia in cui tanti uomini e donne, per orgoglio o inettitudine, non si accorsero di essere complici.
In questo atto di sconfessione pietosa, a tratti commossa, del proprio passato familiare, Chiarini ribadisce il suo apparente disimpegno formale, dietro cui però si celano scelte coerentissime e identificative della sua poetica: i perfetti tempi comici dei tanti momenti di confronto con i suoi genitori, la malinconia priva di retorica con cui sintetizza in quadri elementari e sguardi bambineschi la propria percezione del mondo, la natura frustrata di una ricerca che giocoforza dialoga con le grandi ambivalenze dei sentimenti. E nella sequenza in cui legge i diari del prozio tra le sale di un albergo di Maderno sul Lago di Garda, rifugio e centro di comando della Repubblica Sociale Italiana, Chiarini ricrea per pochi istanti il suo personalissimo Shining, dove il cinema si riconnette ai fantasmi maledetti e tuttavia umani della nostra Italia. [Marco Longo]
Per vedere il film: https://www.mymovies.it/ondemand/popoli/movie/locchio-di-vetro/
Patti Smith e Firenze: una storia d’amore
La sezione “Let the music play” del Festival si apre a suon di rock con il documentario musicale Patti in Florence di Edoardo Zucchetti. Il film del regista fiorentino si presenta come la conclusione di un percorso che lega Patti Smith a Firenze: imprescindibile punto di partenza di questo viaggio nella storia della musica e della città è il 10 settembre 1979, quando l’artista americana si esibì con la sua band allo stadio Franchi di fronte a 80.000 persone.
Il film di Zucchetti prende forma effettiva nel 2009: a trent’anni di distanza dall’ultimo concerto, la musicista torna in Italia per il progetto I Was in Florence, un tour formato ridotto di improvvisazioni e performance di strada. In quella occasione il giovane regista riprende Patti Smith mentre si aggira curiosa per le vie di Firenze, da piazza della Signoria allo storico Teatro Niccolini, fino alla Galleria dell’Accademia, dove canta Because the Night davanti al David di Michelangelo. La camera di Zucchetti segue da vicino la musicista nelle esibizioni da street artist, nei suoi concerti intimi, piccoli atti d’amore che la cantante sembra rivolgere direttamente alla città.
Nel film, Zucchetti recupera il girato del 2009 e ne sceglie i momenti più suggestivi: Patti che fa visita all’officina di un fabbro e canta insieme a lui o mentre, come una turista tra tanti, scatta polaroid in giro per la città. A questo nucleo aggiunge le riprese d’archivio del concerto del 1979 e nuove clip realizzate durante il live del 2015. E quando la rockstar non è in scena, il regista monta le interviste a Lenny Kaye e Jay Dee Daugherty (musicisti della band), insieme alle testimonianze di fotografi, giornalisti, organizzatori dei concerti che raccontano non solo Patti Smith, ma soprattutto l’Italia, Firenze e la sua storia musicale che si intreccia a quella politica. Zucchetti rielabora così diversi materiali e li assembla nella forma di in un ritratto composto da immagini differenti e da una pluralità di voci. Al centro la figura di Patti Smith, tutto intorno Firenze. [Giulia Bona]
Per vedere il film: https://www.mymovies.it/ondemand/popoli/movie/patti-in-florence/