Fuori fuoco è una rubrica settimanale che la redazione di Filmidee ha ideato per riflettere sul momento di crisi che il mondo del cinema sta attraversando in seguito alla chiusura delle sale su tutto il territorio nazionale. Poco si è detto sul senso di tristezza che ha ammantato una categoria, in tutte le declinazioni possibili, dalla disillusione dei romantici alla rabbia degli increduli, dalla malinconia dei saggi alla depressione dei più vicini al lavoro. Poco si è detto del lutto provato per gli ultimi difensori delle grandi immagini fragili.
Fondamenta degli incurabili
“Una catena è forte quanto il suo anello più debole”. Lo ha scritto Christian Barnard nella sua autobiografia Una vita, e questo è un fatto curioso. Perché? Chi è questo Barnard? È il chirurgo che praticò il primo trapianto di cuore della storia umana, lo sconsiderato – intelligente genio per alcuni, tracotante insolente per i colleghi, omicida per altri – che nel 1967 aprì il torace di una giovane donna morta per trapiantarlo in un moribondo uomo di mezza età. All’epoca si decretava la morte di una persona facendo riferimento allo stato del cuore: si era deceduti quando cessava di battere. Le innovazioni tecnologiche, le pratiche di rianimazione, stavano però iniziando a complicare questa linea di confine decisa dalla comunità medica. Che fare di un cuore vivo, rianimato da scosse elettriche e massaggi cardiaci, dentro a un corpo morto? Che fare delle persone “al di là del coma”? La decisione di Barnard fu quella di superare il limite dell’allora consentito: non avvisare nessuno, aprire il torace di Denis Dervall, ragazza in coma irreversibile per un incidente stradale, riprendersi dall’al di là il suo cuore e scaraventarlo nell’al di qua nel corpo di Louis Washkansky, droghiere con un cuore completamente spompato e reni e fegato fuori uso. Il trapianto ebbe successo, Barnard non fu accusato di omicidio ma salutato con clamore come una star internazionale. Il droghiere morì diciotto giorni dopo, ma il paziente su cui si fece la stessa operazione il mese successivo morì dopo un anno e mezzo, dando il via ufficiale alla pratica.
Ora, cosa c’entrano Barnard, il trapianto di cuore, la comunità medica degli anni ’60, Dervall e il droghiere Washkansky con la chiusura dei cinema? Cosa c’entra tutto questo con la scelta di chiudere le sale a causa della seconda ondata di contagi per Covid? Niente, in realtà, se si pensa fuori dalla metafora. Ma qualcosa se si pensa dentro alla metafora: qualcosa che ha a che fare con i corpi in coma e i cuori che battono, le decisioni cliniche, le convenzioni, le istituzioni e poi l’anello debole della catena. “Una catena è forte quanto il suo anello più debole”. Malgrado quanto sembri, non si tratta di un grumo metaforico da disporre contro, in direzione contraria e ostinata, in attacco; chi scrive non ha la voce potente e contraria, non ha la forza di sostenere una considerazione forte e la lascia ad altri, in questa disparata (disperata) collezione di voci. Si tratta piuttosto di un correlativo oggettivo, di una raccolta di immagini indifese, fragili, costruite per suggestione e tristezza, di una metafora flebile appunto, che è leggibile solo se accettata, e quindi facilmente rifiutabile. Si tratta di un tentativo di ragionamento, un tentativo sia chiaro, una ricerca del punto di inizio, della prima parola, del punto zero da cui cominciare un discorso, un percorso di senso; si tratta di un ragionamento per immagini in risposta a una condizione clinica critica, si tratta del balbettio di un cuore rimasto abbandonato dentro un anfiteatro di carne che ha smesso il suo colore e la sua corsa. Un ragionamento per immagini, perché quello che resta dalla posizione in cui si scrive sono proprio solo le immagini.
D’altronde sulla chiusura dei cinema si è già detto, tra gli operatori del settore, nella bolla del settore, quello che si doveva dire, quello che si poteva dire, quello che si voleva dire. Poco però si è detto sul senso di tristezza che ha ammantato una categoria, in tutte le declinazioni possibili, dalla disillusione dei romantici alla rabbia degli increduli, dalla malinconia dei saggi alla depressione dei più vicini al lavoro. Poco si è detto del lutto provato per gli ultimi difensori delle grandi immagini fragili, del senso diffuso di una perdita difficile da comunicare ad alta voce assieme ad altri, assieme a persone del mondo reale, presunto reale, sconnesse da una lotta per qualcosa di immateriale, di difficilmente percepibile, di ormai lontano dai pensieri della gente. Certo, in certe zone della produzione critica non si è persa l’occasione per pensare allo stato della critica cinematografica, come si fa sempre quando questa arriva a un’impasse, ma non è abbastanza, non è la questione centrale. La questione centrale è la fragilità delle immagini intorno a cui ruota tutto il sistema cinema che ora è spento. Perché se già erano fragili per natura, le immagini del cinema, deposito di un pulviscolo di luce immateriale, senza peso, alla fine del secondo decennio del nuovo millennio sono ancora meno forti, contano ancora meno. Come è possibile condurre rivoluzioni con loro, proteste a loro seguito, ribaltamenti di fronte, ripensamenti, come è possibile che guidino ancora movimenti? E come è possibile sorprendersi che le sale cinematografiche siano state le prime a cadere, che, dopo tutti i discorsi sulla coscienza del declassamento dell’immagine cinematografica nella vita della quotidianità delle persone, non ci sia stata sensibilità nei ragionamenti istituzionali rispetto all’importanza delle immagini del cinema nella risposta esistenziale alla tragedia?
Le immagini del cinema sono diventate fragili da tempo e poco importano a chi non ha interesse a sentirsi fragile con loro, cioè ad assumere una responsabilità verso la loro debolezza, verso la loro inessenzialità, verso la loro inutilità, che in fondo è sempre stata costitutiva, anche se la scatola che le faceva battere non lo faceva notare. Finché l’immagine aveva l’attaccamento alla sala la fragilità si sentiva meno perché si scioglieva in una protezione condivisa, in una accettazione di responsabilità inconscia sottoscritta da molti, uniti anche se sconosciuti in un momento di dialogo sotterraneo. È sempre stata la sala a tradurre la fragilità delle forme della luce in una forma di assenso comune silenzioso e magico, traducendo il suo essere un negativo, qualcosa che si ritrae continuamente, nel motore di una grande rinuncia del sé, di un riconoscimento di fragilità condivisa. Le politiche della rinuncia al sé, ai propri desideri, alle proprie abitudini, le politiche sacrificali che ora sono promulgate per contrastare la pandemia erano già le politiche del cinema: perché il cinema ha sempre chiesto di riconoscere la propria fragilità, ha chiesto di accettarla e su questa spinta di accettare l’impegno di riconoscere una continuità fragile, l’impegno di un custodire impossibile da soli ma possibile insieme. Per questo lungo le crisi esistenziali dell’uomo il cinema è stato una forte risposta esistenziale, un controbattere alla coscienza tragica, un riscatto.
“Una catena è forte quanto il suo anello più debole”. Ora che le immagini sono sole sono soli anche i custodi, ora che il corpo cinema si è schiantato moribondo e dentro alla sua carcassa tenuta sul filo al di là del coma batte timida l’immagine, si prega fragili per un trapianto di urgenza, per una mano che prenda questo malandato cuore abbandonato e lo schianti nell’elettricità di un altro corpo vivo. L’immagine del cinema resta il più importante anello della catena, perché è l’eredità fragile di una promessa (ormai dimenticata) di felicità come impegno condiviso verso un possibile, contro il tragico. Una cosa che la “visione condivisa tra amici”, la chat interattiva allineata alla visione sugli schermi streaming difficilmente potrà uguagliare. Quale sarà il corpo in cui verrà impiantato il cuore, ora che la pandemia ha accelerato la dimenticanza della promessa? In quale corpo si risveglieranno i nostri occhi?
“Può accadere che, nella penombra di una sala da concerto, tra due ascoltatori che non si conoscono ma che percepiscono con la stessa purezza qualche nota di Mozart, si stabilisca un rapporto dialogico, appena avvertibile e tuttavia elementare, e che già da tempo sarà sprofondato nel nulla, quando si riaccenderanno le luci.“
Martin Buber