Fuori fuoco è una rubrica settimanale che la redazione di Filmidee ha ideato per riflettere sul momento di crisi che il mondo del cinema sta attraversando in seguito alla chiusura delle sale su tutto il territorio nazionale. Una valutazione che parte da questo particolare momento storico per riflettere sul peso specifico che il cinema ricopre all’interno del panorama culturale contemporaneo, attraverso una serie di contributi di diverso stile e soggettività, nell’attesa non solo della riapertura fisica, ma anche di un ritorno a un’idea di collettività piena e consapevole.
Se penso a come sto, se penso a come va
Ho pensieri discordanti. Sono confuso e faccio fatica a schierarmi. Non riesco a giudicare le scelte che vengono prese nel nome del mio bene e di quelli della società a cui appartengo. Solo una cosa mi appare chiara: oggi siamo tutti sulla stessa barca. E come sul Titanic, mentre ripetiamo che “tranquilla Rose, andrà tutto bene”, c’è qualcuno che viaggia in prima classe e molti altri, direi la maggioranza, stanno nella stiva che scotta. Purtroppo, in questa circostanza, non riesco ad accanirmi contro i primi come dovrei. Nutro una grande compassione per gli altri. Un sentimento che può nascere solo da chi, come me, sta viaggiando in seconda.
Un sentimento che riemerge ogni giorno, già prima del Covid, per chi come me è nato nell’epoca delle incertezze e dalla precarietà, la cui sola alternativa all’annichilimento è, per forza di cose, l’ancoraggio a un moderato umanesimo senza prefisso. Faccio parte di quella categoria (o, se preferite il termine riesumato, di quella classe) che si domanda se davvero con la chiusura dei bar, dei teatri e dei cinema, non sappiamo più cosa fare delle nostre giornate. L’uomo sociale ha limitato già da molto il raggio dei luoghi prescelti per l’incontro e lo scambio di idee. Microcosmi che muovono microeconomie, dove più che far cultura si ammazza il tempo. Libreria più drink, pranzi al sacco nei cinema. Ci si reinventa per necessità, ma ci si prende anche gusto. Abbiamo commesso l’errore di deporre la nostra fiducia dentro sale con aria condizionata e distribuzione di spillette. Ora che tutto è di nuovo chiuso, manca la sicurezza del sentirsi parte di un sistema culturale stimolante e ricreativo.
Gli addetti ai lavori del settore terziario che sono scesi in piazza protestavano di fronte alla palese mancanza di rispetto che il governo ha avuto nei loro confronti. La solfa è sempre la stessa: con la cultura non si mangia. Quindi, se ne può fare tranquillamente a meno. D’altro canto, se di film dobbiamo parlare, ce li si può vedere tranquillamente da casa in poltrona, no? E chi ci guadagna? Netflix, per esempio, che ha incrementato di oltre venti milioni il numero di iscritti durante il lockdown.
Non mi sorprende l’atteggiamento da parte del governo, e credo che in fondo non può essere cascato dal pero anche chi ha protestato le scorse settimane. Il nostro è un settore in costante crisi. Il discordante legame fra arte e società assomiglia al rapporto che c’è fra gli ippopotami e le bufaghe, gli uccelletti che si posano sul loro dorso nutrendosi delle escoriazioni. Quando sulla schiena non c’è più nulla da mangiare, prendono il volo verso un ramo più sicuro. Questo è il modo in cui siamo abituati a pensare le regole che uniscono i due mondi. Se il mondo della cultura ha le sue lamentele, è da prima del Covid che deve farsi sentire. Come al solito, l’opinione pubblica si rende conto delle crepe quando il vaso ormai è a pezzi. Ma il mio pensiero va più che altro a chi, fino a oggi, si è occupato di lavorare all’interno di questo settore senza mostrare, all’apparenza, segni di insofferenza.
In questi anni, la prima regola che ho seguito per organizzare eventi “culturali” è stata quella di non farmi sedurre dall’imbambolamento delle accomodanti norme sociali. C’è poco da girarci intorno: la cultura è elitaria perché, a parte biblioteche e parchetti pubblici, tutto costa (e costa troppo). Questo non significa che la cultura dev’essere di tutti, ma aperta a chiunque. Ho promosso progetti che fossero fruibili grazie alla loro gratuità e, quando non mi è stato concesso, che potessero essere accessibili ai più, magari facendoli entrare dalla porta sul retro. Una cosa che di norma, in un mondo perfetto, sarebbe anche sbagliata. Ho conosciuto chi, sacrificando personali interessi, prova a compensare chi scrive di cinema, per esempio, perché lo considera un lavoro a tutti gli effetti. Tiriamo avanti comunque. Per farlo, abbiamo lottato contro la mafia speculativa della SIAE, detentori indegni dei diritti d’autore. Impiegati che probabilmente non sanno chi è Chaplin, pagati per alzare la cornetta e chiamare le guardie qualora ci fosse un gruppo di amici (vige la regola “dagli otto in su”) che stanno guardando un film senza chiedere il permesso. Permesso di cosa?
Ho sempre supportato la pirateria, favoreggiando un sistema fluido e prezioso. In sua mancanza, la mia generazione non si sarebbe mai potuta alfabetizzare. E giorno per giorno viene oppressa e ostacolata (chi se n’era accorto?) per lasciare piazza libera all’ennesima emanazione del capitalismo sfrontatamente politically correct: lo streaming a pagamento. Un sostituto che, a prescindere dalle sale chiuse o aperte, detta il monopolio sull’immaginario collettivo, del quale siamo tutti complici consenzienti. Ho scelto dove stare, alleandomi con le realtà che non hanno smanie espansionistiche, ma che propongono forme evasive di auto-sostentamento. A volte potenti, a volte più maldestre, ma pur sempre nobili e aperte al dialogo. Non ho mai supportato chi dice di fare cultura, né ho mai pensato di farla io stesso. Tutt’al più, mi sono attrezzato per disimparare quel che ci avevano incastonato negli occhi.
Constato con grande amarezza che non rimpiango le sale cinematografiche della mia città. L’anno scorso, i film degni di nota che ho visto da solo o con le persone che amo, li posso contare su una mano. Una successione di fallimenti che mi hanno portato a diffidare del sostantivo “culturale”, ma hanno acceso il desiderio di cercare altrove. Ora come ora, rimpiango di più il paninaro notturno a cui tocca chiudere i battenti piuttosto che le sale del pomeriggio, piene di anziani e di film fatti e pensati per un pubblico che dorme.
Credo in un’altra forma di cultura, non per forza di opposizione ma che si metta in contrasto, che si dimostri preziosa senza bisogno di dichiararsi tale. Ricordarsi che l’arte non è alternativa, sono i modesti prodotti culturali a esserne l’alternativa succursale, derivati di derivati. Il “lavoro culturale”, tanto caro a Bianciardi quanto ai componenti di questa redazione, è un tema sempre vivo che eravamo intenti ad affrontare ancor prima delle offensive da parte del governo, molto prima dell’arrivo del virus e delle proteste in piazza. È evidente che c’è bisogno di un nuovo modo di fare le cose.
Detto questo, faccio un passo indietro e osservo con la giusta distanza cosa sta dall’altra parte di quello schermo telato. E come in ogni pubblicità progresso che si rispetti, vedo sfilare i volti di operatori, cassieri, maschere, programmatrici, direttori artistici, addetti alle pulizie, insegnanti, finanziatrici e distributori coraggiosi. E ancora sceneggiatrici, costumisti, ballerini, registe, tecnici del suono, animatori, attrici, scrittori, autisti, fotografe, critici. Spetta a me solo in parte giudicare le loro competenze e valutare se quel che hanno fatto fino a ora sia più o meno nocivo. Ripenso a quel che ho scritto su queste pagine, cose tutt’altro che memorabili, e mi rimprovero di non aver dato abbastanza. Vorrei che mi fosse concesso ancora del tempo, per ricominciare a sporcarmi le mani. Vorrei soprattutto che questa storiaccia finisca, che gli amici e i parenti non mi chiamino ogni giorno per dirmi chi si è ammalato e chi non ce l’ha fatta.
Oggi siamo tutte lavoratrici e lavoratori senza un impiego. Chi pagherà amaramente il prezzo di questa chiusura, son quelli che hanno sempre sudato per poterci consegnare una goccia di splendore. E non credo nemmeno che questo periodo ci servirà d’insegnamento.
Mi sento confuso. Ma se uno s’accorge di essere confuso non è poi confuso del tutto. È confuso senza speranza chi non se ne rende conto.