Cara Valentina,
mi sembra impossibile non scrivere questo testo rivolgendomi a te. Ti ho incrociata tante volte, poi un giorno ho guardato in un modo diverso al tuo lavoro e il mio sguardo è stato ricambiato da un tuo sorriso.
Oggi che non ci sei più, mi ritorna alla mente il nostro incontro al LOVERS Film Festival, nel primo anno della direzione di Irene Dionisio: un nuovo progetto culturale che guardava al gender in maniera più inclusiva, al quale tu hai fin dall’inizio aderito con tutta la tua tracotante energia. Insieme abbiamo tenuto una lunga masterclass, che resta uno dei momenti professionali che ricordo con maggiore trasporto, perché è stato un vero momento di scoperta di se stessi attraverso ciò che si è fatto (tu come autrice, io come lettrice d’immagini: due scelte di vita ugualmente ad alto rischio se vi si aderisce con fervore totalizzante). Ripercorrere insieme i tuoi film, entrare nelle pieghe di un cinema che rivela la posizione di chi guarda prima ancora di quella di chi è guardato, non è stato solo importante per te nell’ottica di riappropriarti del tuo percorso unico (dopo la difficile presentazione del tuo primo film di finzione, Dove cadono le ombre) ma anche per me (e tutti quelli presenti) per assumere la consapevolezza di un corpus di opere unico in Italia, in grado di scardinare la binarietà nell’estetica cinematografica.
I tuoi film sono sempre stati portatori di un nuovo modo di guardare il mondo: dalle strade di Brindisi di My Marlboro City fino all’abisso delle miniere sarde di Dal profondo, non hai avuto paura di porti in situazioni complesse, uscendone carica della resistenza dei personaggi che descrivevi. Senza paura di passare la linea che separa le responsabilità dai doveri, il lavoro dalla politica, la credenza dalla fede. In mezzo a questi concetti alti, eri disposta a immergerti e scavare per restituire una carnalità a ideali che nella nostra società erano ormai svuotati di senso.
E fin dal tuo primo corto (dall’emblematico titolo Pater noster) – quello che non riesco a togliermi dalla testa e di cui abbiamo a lungo parlato – hai offerto prima di tutto il tuo corpo, frapponendoti con la videocamera tra un maestro e un’allieva, un despota e una vittima sacrificale, per rompere un paradigma che si perpetua nei secoli. Stava già lì il conflitto a cui hai finito per tornare in Faith, quello che resterà il tuo ultimo film: un tornare proprio a quella setta di monaci guerrieri da cui eri partita, una chiusura del cerchio che nessuno avrebbe mai voluto vedere come conclusiva, ma solo come una nuova ripartenza. Nella comunità di guerrieri della luce, in cui un uomo detta legge e in cui si manifestano gli spiriti sommersi delle nostre malcelate fragilità, hai trovato un modello per descrivere le radici profonde del nostro essere umani, incapaci di una vita fuori dal sociale riprodotto in modelli che rivelano la loro mostruosità quanto più sono spogli. In te non c’era giudizio, solo l’inesauribile volontà di stare vicino a quelle persone, alle più sensibili e disarmate, alla disperata ricerca di una luce a cui aggrapparsi per non farsi inghiottire dalla notte.
Grazie per lo sguardo libero da ogni costrizione, grazie per il tuo corpo buttato in mezzo anche ai più complessi scontri. Sarà impossibile dimenticare il tuo sorriso tenero, di chi sa ascoltare e lasciarsi trasportare da un’idea.
Fai un buon viaggio,
Daniela