Alla fine della proiezione di Samp al cinema Beltrade di Milano per Le vie del Cinema, Flavia Mastrella e Antonio Rezza si prestano per due chiacchiere con il pubblico via Skype. Abbiamo ancora nella testa la battuta finale del loro ultimo film, quella in cui Rezza (in arte Samp, il temibile killer dalla giacchetta rosa) fissa dritto in camera e ci apostrofa “Ve li potete ficcare nel culo i vostri soldi” (la soddisfazione diventa ancora più sfiziosa se pensiamo che il film è stato presentato a Venezia quest’anno). Rispondendo alla domanda posta da uno spettatore in sala, che suggeriva una riflessione sulle spese di produzione del cinema, il duo tira in ballo Antonin Artaud, sostenendo che, per i loro film, non hanno mai accettato dei soldi dallo Stato proprio come non l’avrebbe mai fatto il drammaturgo francese. E questo non certo per emulare un mito, ma per una ragione per nulla astratta: l’arte non può condizionare la vita al punto da privarla dei suoi valori. La questione viene tirata in ballo ancora una volta quando gli si domanda quanto fosse costato un pezzo di Brian Eno all’interno del film. La risposta è stata la stessa: il brano non è stato pagato perché, per i registi, pagare certe somme spropositate è eticamente scorretto. La soluzione? Se il film verrà distribuito in sala (cosa che ci auguriamo per il bene collettivo, ma tanto sappiamo già come andrà a finire), si cambierà il brano musicale e non ci si porrà più il problema. Perché RezzaMastrella sono due persone fatte così, coscienti che la qualità di un opera non si limita alla scelta di una sequenza da un minuto al posto di un’altra, proprio come la bellezza di una giornata non dipende da una sola risposta storta ricevuta dal panettiere la mattina. Non sono tipi che si abbattono facilmente, insomma. RezzaMastrella resistono all’erosione dei sentimenti spinta dal cinismo dominante, e lo fanno con l’arma più tagliente che l’uomo abbia a sua disposizione: l’ironia.
RezzaMastrella non sono contro: sono fuori. E quando scriviamo fuori, intendiamo fuori di testa, fuori dalle regole imposte dall’industria cinematografica, del politically correct, fuori dal dibattito polemico qualunquista, dal dibattito costruttivo perbenista. Talmente fuori da portare il cinema (e il teatro performativo, di cui sono maestri eccelsi) fuori per le strade, alle persone e con le persone, di portare direttamente il cinema dentro la vita (e non viceversa, come ci ostiniamo a pensare tutti quanti). La trama da cinema spy-crime americano (di cui il film ruba gli attributi narrativi e caratterizzanti) viene utilizzata solo per essere stravolta, restituendo allo spettatore una versione sgrammaticata. E sono proprio queste situazioni deformate e claudicanti, persino allucinate, quelle in cui possiamo ritrovare tutte le imperfezioni della nostra quotidianità.
RezzaMastrella hanno fatto per tanti anni televisione, portando nei salotti e nelle cucine degli italiani la loro versione dei fatti (che poi sarebbe quella delle persone, trattandosi di un programma che spinge il passante a esprimersi liberamente). Troppolitani è stato a suo tempo l’esempio eclatante che un modo di fare televisione d’avanguardia e allo stesso tempo popolare era possibile, proprio come Ciprì e Maresco, di cui possiamo notare anche molte somiglianze sul piano visivo con le prime opere di RezzaMastrella. E proprio come l’ultimo film del regista siciliano, La mafia non è più quella di una volta, il sapiente convergere dei generi cinematografici è solo il pretesto narrativo per evidenziare la nostra assuefazione da un immaginario stereotipato ed incestuoso, che si riproduce su se stesso facendoci smarrire in un mare di racconti hollywoodiani tanto cari soltanto al botteghino.
Samp è un film militante, tutt’altro che conciliante. Un film scomodo, non proprio come certe favole cupe di oggi ci vogliono far credere. Samp è il killer Kitano del Sud Italia che uccide nonne e bambini per estirpare le radici che ci tengono legati alle tradizioni, quelle che paradossalmente vengono difese a spada tratta dal cinema d’autore italiano. E viene da domandarsi perché, poi. Qualcuno si è mai chiesto se questa posizione non sia forse troppo semplice, persino un po’ scorretta?