Ha fatto notizia, in queste ultime settimane, la violentissima campagna di boicottaggio che ha riguardato il primo lungometraggio della regista franco-senegalese Maïmouna Doucouré, Mignonnes (Cuties, 2020), racconto di formazione di una preadolescente francese di origini senegalesi, come la regista, che cerca nel ballo lo strumento per integrarsi con un gruppo di coetanee e sfuggire ai dettami soffocanti della propria comunità familiare. Anche a causa di una campagna di promozione di Netflix, distributore internazionale del film, decisamente fuorviante – il primo poster rivestiva di una patina glamour e allusiva uno scatto che mostra le quattro protagoniste in una scena del film che ha, in realtà, tutt’altro registro – il film negli Stati Uniti è stato accusato di istigazione alla pedofilia perché veicolerebbe un’immagine delle minori ipersessualizzata.
Lo scivolone di Netflix non poteva capitare in un momento peggiore: complice una drammatica crisi sanitaria, economica e sociale, e un clima politico infiammato, negli Stati Uniti (ma non solo) si sta facendo largo la teoria del complotto QAnon, che ipotizza l’esistenza di una rete mondiale di pedofili fra le cui fila si troverebbero anche celebrità e leader politici soprattutto democratici, come Obama. Alcuni senatori del Partito Repubblicano hanno perciò chiesto con una lettera che Netflix venga indagata per pedopornografia; molti utenti hanno minacciato di disdire l’abbonamento (il numero effettivo di disdette sarebbe stato, però, trascurabile, come rivelano gli ultimi dati rilasciati dalla piattaforma) e l’azienda californiana ha subito un ingente danno economico a causa del calo delle quotazioni in borsa a seguito dello scandalo.
Sicuramente, quello di Netflix è un rischio calcolato: queste polemiche garantiscono comunque a Mignonnes una visibilità insolita nel mercato statunitense per un titolo d’essai in lingua straniera. C’è da chiedersi, però, che cosa ne sarebbe del film se il colosso USA decidesse, per ragioni commerciali, di assecondare le pressioni di questi utenti e rimuovere il titolo dalla sua piattaforma, in cui del resto non mancano titoli che affrontano temi simili in una forma spesso programmatica e rassicurante, e perciò decisamente più innocua. Probabilmente, Mignonnes sparirebbe dai radar, e non è da escludere che la carriera della regista possa essere compromessa da tutta questa vicenda, almeno all’estero – in Francia, dove il film è uscito in sala, non solo la solidarietà verso di lei è quasi unanime, ma il film rientra addirittura fra quelli di cui si consiglia la visione alle scolaresche. Si guarda con orrore a una presunta cancel culture quando colpisce nomi noti e amati come Polanski e Allen, o titoli come Via col Vento (peraltro mai censurato, ma solo temporaneamente rimosso da una delle molte piattaforme in cui è possibile vederlo, HBO Max), ma la verità è che Via col Vento o le opere di Polanski e di Allen le vediamo lo stesso, ovunque; partecipano a festival e vetrine internazionali; vendono e incassano senza bisogno della difesa d’ufficio della quale Doucouré non sembra, invece, beneficiare, a dimostrazione dei paraocchi di certa indignazione cinefila che pretende di ergersi a protezione di autori e opere che hanno comunque un mercato, invece di interrogare davvero le dinamiche interne a un’industria ormai abilissima nel cavalcare tanto i peggiori rigurgiti reazionari che tutte le istanze di inclusione.
Fra i pochi che hanno scritto della vicenda in Italia non è mancato chi ha scherzato sul fatto che Doucouré sia donna e nera, come a dire che se fosse stata un maschio bianco il trattamento riservatole sarebbe stato perfino peggiore. Chiunque sostenga una cosa del genere dimostra scarsa comprensione della battaglia ideologica al centro della quale Doucouré si è trovata suo malgrado. Dietro gli hashtag a difesa dell’infanzia, infatti, si nascondono frange politiche reazionarie e razziste alle quali non importa nulla, per esempio, delle centinaia di bambini separati dai genitori e rinchiusi in condizioni inumane nei centri di detenzione per migranti. Che Doucouré sia donna, nera, cresciuta all’interno di una comunità musulmana è, semmai, ciò che alimenta la veemenza degli attacchi di gruppi sociali per i quali il Bambino non è mai un individuo dotato di un corpo o di un’identità, ma semplicemente un costrutto ideologico al quale fare ricorso per discriminare e marginalizzare quei soggetti le cui idee, azioni, o semplicemente la cui esistenza, costituiscono una minaccia contro la quale agitare un immaginario dell’infanzia fortemente distorto. Lo scriveva già con molta chiarezza, nel 2004, Lee Edelman in No Future: “Nella sua forzata universalizzazione, tuttavia, l’immagine del Bambino, da non confondersi con le esperienze di nessun bambino realmente vissuto, serve a regolare il discorso politico – a prescrivere ciò che avrà rilevanza come discorso politico – costringendo tale discorso ad aderire in anticipo alla realtà di un futuro collettivo di cui non siamo mai autorizzati a riconoscere o affrontare lo statuto metaforico. […] Quel bambino figurato incarna una sorta di cittadino ideale, autorizzato a rivendicare a pieno diritto ciò che gli spetterà del bene della nazione, sebbene sempre a discapito dei diritti dei cittadini ‘reali’”.
A essere disturbante e minaccioso, del film di Doucouré, è il fatto che affronti il tema della scoperta di sé, della propria identità e della propria sessualità da parte del soggetto femminile preadolescente. Si tratta di un tema poco o nulla affrontato al cinema, specie se lo si mette a confronto con un topos senz’altro più frequente sia in film mainstream che indipendenti: quello del ragazzino che esplora la propria sessualità tra riviste porno di genitori e fratelli maggiori, che scopre la masturbazione o le polluzioni notturne, o che ha precoci esperienze sessuali.
Le giovani interpreti di Mignonnes attraversano quella delicata fase di passaggio dall’infanzia all’età adulta in cui la preadolescente vuole lasciarsi alle spalle la propria identità di bambina, ma non si è ancora prefigurata del tutto cosa significhi essere adulta. I processi di scoperta del proprio corpo e delle proprie pulsioni si accompagnano al bisogno di confrontarsi con dei modelli identitari cui aderire per colmare questa incertezza. Modelli che, nel caso della protagonista del film, sono oltretutto contraddittori: cresciuta in una comunità senegalese di religione islamica, ma inserita in un contesto scolastico laico e multietnico, Amy (interpretata dalla talentuosissima esordiente Fathia Youssouf) sente il peso e le costrizioni della cultura patriarcale cui la madre, invece, si piega stoicamente, e allo stesso tempo guarda con invidia ai costumi occidentali e decisamente più disinvolti delle sue coetanee. Nel twerking e nei video espliciti delle rapper nere Amy trova un modello possibile per sperimentare con la propria identità di genere attraverso l’imitazione. In questa scoperta di sé tenera, commovente e disperata, il corpo diventa uno strumento di ribellione alle attese e alle imposizioni degli adulti, ma anche un elemento estraneo, perturbante, oggetto sia di esibizione compiaciuta che di sgomento e rifiuto (il sangue mestruale, che appare alla protagonista come una macchia che si allarga sull’abito tradizionale donatole per le nozze del padre).
La forza del film sta proprio nel sostituire all’immaginario stereotipato del Bambino il corpo vero, vivo ed esuberante delle sue protagoniste, che chiede agli adulti di essere visto, considerato, compreso, senza essere oggetto di una rimozione volta a rimpiazzarlo con una versione ideale da poter strumentalizzare. In questo senso, quanto successo con Mignonnes può essere accostato a una piccola vicenda di cronaca che ha riguardato le studentesse di un liceo romano, invitate da una docente a non indossare gonne troppo corte. Non mi interessa più di tanto biasimare l’atteggiamento della docente che avrebbe detto, o forse no, la frase incriminata “ai professori sennò cade l’occhio”: so bene che, una volta dato un fatto in pasto ai media o ai social i suoi contorni si deformano. Posso solo dire che, nel corso della mia esperienza di insegnante, ho sentito più di frequente di quanto avrei voluto commenti sui centimetri di pelle esposti dalle studentesse. Queste reazioni mi sembrano figlie di uno stesso atteggiamento di paura nei confronti del corpo femminile, e di rimozione sistematica di tutti gli aspetti che riguardano la scoperta della sessualità e del desiderio nell’infanzia e nell’adolescenza. Scoperta che passa, inevitabilmente, anche attraverso la modifica del proprio aspetto esteriore e dell’abbigliamento: con esso, come le giovani protagoniste di Mignonnes, le ragazze mettono alla prova il potere che possono esercitare attraverso il loro corpo e il desiderio che suscitano negli altri. Ma gli atteggiamenti censori e di rimprovero, gli appelli a un concetto vuoto come il “decoro” non servono a nulla, se non a confermare che il corpo e il desiderio femminile sono sporchi, sbagliati, disturbanti. Bisogna, piuttosto, discutere di questi processi, soprattutto nei luoghi di formazione, senza ipocrisia o paternalismo, con un atteggiamento aperto e disposto all’ascolto. E bisogna lasciare al cinema la possibilità di produrre nuovi immaginari attraverso corpi destabilizzanti, distruttivi, rivoluzionari.