Secondo lungometraggio del regista serbo Ivan Ikic, che ha esordito nel 2014 con il film Barbarians, Oaza è un ritratto drammatico della vita di tre ragazzi all’interno di un istituto per persone con disabilità mentale vicino Belgrado.
Il tono ottimistico delle immagini di apertura -filmati di propaganda in 16mm risalenti all’apertura dell’istituto nel 1969 ritrovati in uno scantinato durante le riprese di Oaza e intrisi di speranza nella possibilità di riabilitare i pazienti con bisogni speciali per facilitarne il rientro in società- si infrange con la realtà asfissiante della storia che Ikic immortala nel suo film, testimoniando l’attuale situazione degli istituti serbi.
Diviso in tre capitoli, dedicati ai protagonisti Maria, Dragana e Robert, il film segue l’intreccio emotivo che li lega in un bizzarro triangolo d’amore, desiderio e pulsione di morte, come uniche vie di fuga da un’esistenza di abbandono. Appena arrivata nell’istituto, Maria fa amicizia con Dragana, riconoscendo su i propri polsi i segni che le accomunano. La sua presenza, però, cambia i fragili equilibri che legano l’amica a un altro ospite della struttura, il taciturno e serafico Robert, presto oggetto delle liti e delle gelosie delle due ragazze. In un lungo avvicinamento a una tragedia annunciata, che carica l’atmosfera del film di attesa, i tre ragazzi si sfiorano e si strattonano via dalla reclusione a cui sono costretti, in una ricerca disperata ed estrema di significato alla propria esistenza.
Concepito a partire da un precedente progetto documentario, Ikic sceglie di rappresentare una realtà estremamente complessa e delicata con rigoroso naturalismo. Girato in un vero istituto per disabili mentali, i protagonisti non sono attori professionisti bensì i pazienti stessi della struttura, accompagnati in un percorso di immedesimazione che porta a performance credibili e toccanti. Il senso generale di inutilità e di abbandono vissuto all’interno del centro si riflette in un naturalismo esasperante e nella lentezza con cui ogni gesto è osservato fino allo sfinimento. Nonostante riesca infatti a cogliere con realismo la quotidianità drammatica dei personaggi, immortalati dalla fotografia di Milos Jacimovic, il film manca di una solidità narrativa, abbandonandosi quasi a un flusso di scene che si somigliano e riproducendo un senso di intrappolamento che però non raggiunge un coinvolgimento emotivo con le vicende. Così, l’ossessione per il reale che tanto appassiona, sembra in questo caso non portare nulla di nuovo a un immaginario ormai consolidato e assodato che forse avrebbe bisogno di essere animato con una prospettiva artificiale, che sia più reale della realtà stessa. [Carlotta Centonze]
Contraccolpi
Il giovane regista russo Ivan Tverdovskiy propone con il suo quarto lungometraggio una riflessione sulla memoria, rievocando la tragedia avvenuta nel 2002 al teatro Dubrovka, quando un gruppo di terroristi ceceni prese in ostaggio 800 spettatori. Lo fa attraverso l’esperienza privata di Natalya, una sopravvissuta alla strage, che dopo aver abbandonato la famiglia ed essersi fatta suora, ritorna per organizzare nello stesso teatro un incontro fra i superstiti. Ai pochi che giungono si aggiunge la figlia della protagonista, in estremo conflitto con la madre. Gli altri sono invitati a sottoporsi ad una sorta di “esperimento” collettivo: dovranno gonfiare dei pupazzi che prenderanno il posto degli spettatori (vittime e carnefici), per poi discutere collettivamente dei ricordi frammentati di quella tragica giornata.
Conference si fa testamentario di quel filone che, più che rievocare scenograficamente gli eventi storici, riflette sul loro dramma perpetuato nel tempo: come ci hanno insegnato Chris Marker e Rithy Panh, il peso delle immagini grava nei cuori più nella loro assenza che nella loro presenza.
Tverdovskiy utilizza coraggiosamente lo stesso scenario dell’attentato, mettendo in scena con lucidità e freddezza (la stessa che troviamo nella magistrale fotografia di Fedor Glazachev) uno scambio di interazioni vacillanti (fra gli attori che recitano nella lunga scena del teatro, troviamo due giovani superstiti che hanno realmente vissuto l’attentato).
Vera ruota motrice del film è la protagonista, interpretata da Natalya Pavlenkova, che con la sua glaciale carica drammatica riesce a contrarre e far esplodere il contraccolpo irrazionale di una ferita ancora aperta, nella storia della Russia contemporanea. [Davide Perego]